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Mariella Bettineschi, Yelena Yemchuk 

”Il paradosso del tenere mentre si dà”

16 maggio – 17 settembre 2023




 

13 giugno 2023

 

Dialogo tra Mariella Bettineschi e Marcella Manni

 

Marcella: Con Mariella ripercorriamo, a partire dal percorso della mostra “Il paradosso del tenere mentre si dà” allestita presso gli spazi di Metronom, la sua storia sia personale che lavorativa, due percorsi intrecciati e connessi. L'esordio con gli studi all'accademia di Belle Arti di Bergamo e da lì una carriera fatta di mostre importanti – come la Biennale di Venezia – e pubblicazioni di libri e monografie. Un eclettismo nell'affrontare la ricerca in maniera personale e coerente rispetto alle basi fondanti del lavoro stesso.

In Bettineschi ho trovato un approccio caratterizzato dall'attenzione al tema del ruolo della donna nella società, al vivere la propria esperienza di artista a partire da questo, dal femminile letto ed espresso, vissuto, affermato e difeso. Il lavoro, l'opera che si realizza e che viene poi restituita – tornando al titolo della mostra ed al filo conduttore concettuale – è questa idea dell'artista che produce e offre a un pubblico di spettatori e collezionisti una parte di sé che non lascia mai fino in fondo. Un'opera che si continua a tenere e percepire come propria perché parte della propria vita, e non qualcosa che una volta compiuto si abbandona.

Entro a questo punto nel vivo dell'incontro, lasciando la parola a Mariella. Partirei dall'inizio, da questa scelta di iscriversi e studiare all'Accademia di Belle Arti, che in quegli anni era qualcosa di unico da un certo punto di vista, di non ortodosso possiamo dire?

 

Mariella: Sì, assolutamente sì. Molti mi hanno chiesto quand'è che ho cominciato a lavorare e quando ho deciso di fare l'artista. Io penso di non averlo mai deciso, nel senso che non ho mai avuto un momento in cui ero consapevole di quello a cui stavo andando incontro, se non per qualche episodio sporadico. Per esempio: quando frequentavo le elementari gli altri bambini mi chiedevano spesso di disegnare per loro, dandomi un ruolo importante. Io ero una bambina dal carattere particolarmente chiuso, che non giocava o parlava quasi con nessuno, però questa richiesta mi permetteva di fare una cosa speciale, e questo mi dava gioia. Trovavo in quella dimensione un appiglio, qualcosa a cui aggrapparmi per poter essere, per poter sopravvivere alla mia assoluta chiusura e solitudine.

Alle scuole medie incontro per la prima volta in un testo di antologia un'immagine a colori di un viso di Modigliani. Io provenivo da una famiglia in cui l'arte semplicemente non c’era, per cui quella era la prima volta che la vedevo. L’incontro con quest’opera, con quegli occhi azzurri, ciechi, per me è stata una cosa pazzesca, ho avuto una reazione emotiva fortissima.

Queste sono due piccolissime premesse, giusto per dire che non c'è un inizio per questa storia: dalle elementari fino ad oggi non ho smesso un minuto di essere artista, lì trovavo una conferma, lì io ero.

 

Il mio insegnante delle medie convinse poi mia mamma a farmi fare domanda d’iscrizione al liceo artistico, era il primo anno che veniva inaugurato il Liceo Artistico a Bergamo e c'erano solo 12 posti disponibili. La mia pagella, anche con buoni voti, portava però un 6 in Arte perchè ero molto brava in disegno libero ma mi rifiutavo di fare disegno tecnico. Di conseguenza non accettarono la mia domanda e per me fu terribile, un‘ immensa delusione, ero disperata. Mia mamma mi convinse ad iscrivermi alle magistrali, frequentai per un paio di settimane ma tornavo a casa piangendo tutti i giorni perchè sentivo che non era il mio posto. A quel punto mia mamma mi suggerì di provare a scrivere una lettera personale indirizzata al Preside del Liceo Artistico, spiegandogli quanto fosse fondamentale per me frequentare quella scuola.  Erano i primi anni 60, quindi immaginatevi quanto fosse inusuale la mia richiesta. Scrissi la lettera, la spedii e dopo venti giorni ricevetti la risposta del Preside: mi veniva concessa la possibilità di frequentare l’istituto, visto che avevo insistito tanto.

 

Dal primo anno ho avuto un professore di Figura straordinario che ha seguito esclusivamente la mia formazione. Da lui ho imparato tutto quello che so: mi ha insegnato un modo di disegnare libero, fluido, espressivo, lo stesso che ho conservato tutta la vita. Io ero molto orgogliosa che lui si dedicasse solo a me, avevo 13 anni, non avevo consapevolezza a cosa stavo andando incontro.

 

Quando passavo nell’aula di Ornato, il Professore non sopportava come disegnavo e pretendeva che le bottiglie che eravamo sempre costretti a disegnare, fossero realizzate con un tratto analitico, preciso.

 

Io però disegnavo a modo mio e lui sistematicamente prendeva il mio foglio e lo strappava, questa situazione andò avanti per mesi. Un giorno, non potendone più, mi sono alzata e sono andata verso il trespolo sul quale erano appoggiate le bottiglie, ne ho presa una, con molta calma mi sono diretta verso la finestra e l’ho lasciata cadere dal terzo piano. Ho ripetuto questa azione con tutte le bottiglie che c’erano, nel totale sbigottimento dei miei compagni. 

 

Ovviamente mi hanno sospeso, a giugno trovo 3 in Ornato e sono stata rimandata a settembre. Anche a settembre verrò bocciata con il 3 in Ornato.


 

In quel momento, arrabbiatissima, prendo finalmente coscienza del trabocchetto in cui ero caduta: un conflitto fra due professori di tendenze politiche opposte, uno comunista e l’altro fascista.

 

Lascio quella scuola per iscrivermi all'Accademia, all'esame di ammissione faccio più o meno lo stesso disegno con il quale mi avevano bocciato al Liceo e questa volta prendo 10.

 

Tutto questo per dire come un inizio così complicato avrebbe potuto farmi vacillare. Di storie come queste potrei raccontarne a decine, vissute anche da persona adulta e donna sposata. Per questo ho imparato a costruire un recinto mentale, all’interno del quale nessuno è mai potuto entrare, nemmeno le persone a me più care. Questa è stata la mia difesa, prima di tutto come artista ma anche come donna.

 

Sono nata da due genitori che per la loro storia e il loro vissuto non appartenevano a nessuna categoria o struttura convenzionale, erano completamente destrutturati. Quindi io e mio fratello siamo cresciuti senza i preconcetti tipici di quell'epoca, come ad esempio “tuo fratello queste cose le può fare, tu no”. Siamo cresciuti molto liberi, allo stato brado oserei dire. Per questo motivo io non avevo coscienza di essere una femmina e che certe cose mi erano convenzionalmente precluse.

Comincio a vivere questa condizione quando vado in Accademia, dove le femmine erano considerate molto meno rispetto ai maschi e le poche che c’erano venivano comunque considerate “in attesa di marito”. Inoltre i docenti e i modelli di riferimento culturale erano tutti uomini.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marcella: Quella era una realtà che condivideva delle regole, non solo all'interno dell'ambiente accademico ma anche fuori, dei codici di comportamento non scritti, che appartenevano a quell'immaginario in cui ci si aspettava che gli uomini e i docenti facessero cose diverse rispetto alle donne. Come ha influito questo aspetto nella tua vita?

 

Mariella: Non per essere superba, ma io ero molto brava nel mio lavoro. Nonostante questo, essere una femmina mi escludeva, appunto, da tutti quei contesti riservati solo ai maschi. Quindi succedeva che io lavoravo e basta. Mi svegliavo la mattina presto per andare in Accademia, dove si studiava dalle 8 alle 18 poi tornavo a casa, cenavo e andavo a dormire. Di nuovo così tutti i giorni, per sei anni, senza avere vita sociale. Uno stile di vita, se vuoi, squilibrato.

Però, da questo ritmo di studi ho avuto una formazione e un apprendimento tecnico altissimo, studiavamo tutte le pratiche artistiche: disegno, scultura, pittura, affresco, vetrate, eccetera. Se oggi le scuole sono sempre più specializzate, ai miei tempi erano decisamente più interdisciplinari.

I problemi cominciano una volta finita l'Accademia: le mie competenze erano alte, ma provenivano da un mondo patriarcale. Io avevo bisogno di trovare un linguaggio mio, che mi raccontasse.

 

Nel frattempo, il bisogno di “normalizzazione” mi porta a sposarmi a 21 anni e a 23 nasce mio figlio Tiziano.

 

Marcella: Beh, tutto sommato hai realizzato quello che ti veniva detto, o meglio quello che tutti si aspettavano da te in quel momento. In qualche modo hai seguito la corrente.

 

Mariella: Ripeto, è il mio bisogno di “normalizzazione” che mi porta a questo passo. Come già detto sopra, provenivo da una famiglia “diversa”, nella scuola non mi sono mai sentita integrata, avevo bisogno di costruire una mia vita affettiva, rivelatasi purtroppo un’illusione. Sono anni molto difficili, durante i quali inizio a prendere coscienza di alcune cose e comincia il mio femminismo, che all’inizio è incentrato più sulla mia vita personale che sul lavoro. Definisco quel periodo preistoria:

dieci anni di tentativi e sperimentazioni, in solitudine, senza modelli di riferimento.

 

Nel 1979 finalmente riesco a fare tabula rasa: prendo alcuni vecchi lavori, li accartoccio, li immergo nel catrame e li lego con dello spago. Nasce così la serie Chiudo! e da lì trovo finalmente una forma di espressione adatta a me: prendo alcuni oggetti quotidiani del fare femminile e creo i primi Morbidi, a cui seguiranno i Piumari, i Tesori… Comincia un percorso dove io sono cresciuta come persona e ho preso coscienza di me come donna.

La condizione principale per una donna è che sia economicamente autonoma, quindi  con determinazione prendo in mano il mio lavoro e cerco di farmi strada. A nessun artista maschio veniva chiesto di rinunciare alla famiglia per il bene del lavoro, o viceversa, mentre alle donne che volevano fare le artiste veniva detto di rinunciare alla famiglia. Io invece volevo tutto, e mi davano della pazza per questo. L'ho pagata cara, molti pezzi della mia vita li ho persi per strada, inevitabilmente, però non ho mai rinunciato al mio lavoro.

 

Marcella: E questo è il motivo per cui siamo qui questa sera, come si dice!

Da alcune delle tue opere traspare un'evoluzione del lavoro e anche un valido meccanismo di ripresa. Un pò per un approccio personale, ma anche per la situazione contingente che è stata quella del lockdown – che ci ha costretto a stare in casa, che nel tuo caso fortunatamente coincide con il tuo studio – ha fatto sì che tu riprendessi in mano vecchi lavori, costruendo come dei ponti verso il passato. Per questa ragione alcune delle opere esposte in questa mostra, la maggior parte direi, hanno tutte una doppia datazione (la prima verso la fine degli anni 90 e la seconda risalente al 2020), perché nascono da lavori realizzati in precedenza, sui quali sono state effettuate delle modifiche suggerite dal tempo e dall'esperienza. Elementi applicati tramite questa pratica del raccogliere e mettere in ordine oggetti appartenenti all’uso quotidiano, collegati in modo stereotipato all'universo femminile e alla dimensione domestica – perline, cerchietto, tulle, ricamo. La realizzazione di questi lavori, dal titolo “Il primo racconto (e l'ultimo)”, è un po' come la chiusura del cerchio, un andare a ritroso nel pensiero ma anche praticamente nel lavoro in maniera coerente.

Mi piacerebbe partire da qualche tua parola come suggerimento di approfondimento di alcuni dei momenti centrali che hanno guidato il tuo lavoro: tornando a questo discorso del prendere le distanze dall'universo maschilista dell'Accademia, non sapendo però quale direzione prendere, tra una serie di pensieri in libertà che mi hai condiviso in passato, c'è questo che recita “maschile e femminile, sposo e sposa, viaggio verso la conoscenza del sé, cammino urgente in una cultura patriarcale, gerarchica e autoritaria”. Mi è venuto spontaneo collegare questo flusso di pensieri ad un'altra tua dichiarazione: “più i rapporti tra due realtà ravvicinate saranno lontani e giusti, più l'immagine sarà forte, più avrà potenza emotiva e poetica”.

 

Mariella: Credo che questo sia la cosa più importante, i tanti anni di esperienza mi hanno portato alla sintesi che hai appena citato. Io faccio uso delle tecniche – fotografia, ricamo, digital painting… – come strumenti per creare qualcosa. Di norma vedo e raccolgo, mi circondo di cose che attirano la mia attenzione, il mio sguardo, Io non so perché mi chiamano ma so che mi chiamano. Gli artisti in generale hanno delle cose che continuamente attirano la loro attenzione. Tutte queste cose all'inizio non hanno una logica o un filo conduttore, o quantomeno l'artista ancora non lo sa riconoscere. A volte mettere insieme due elementi che sono contrari può far sì che si potenzino a vicenda. Non si parla di coerenza logica ma di coerenza interna al lavoro.

Una cosa che non si dice mai è che ogni lavoro è come una persona: è specifico e ha i suoi bisogni, vuole delle cose in particolare e continua a chiamarti per ottenerle. Ma tu ancora non sai quali sono e devi scoprirlo tramite tentativi: provi, inventi, sposti, lasci perdere, togli, abbandoni, ricominci. Qualche volta capita di avere un'ispirazione, ma è raro, e l'unico modo certo è andare a tentativi. Questa serie di opere in mostra dal titolo Il primo racconto (e l’ultimo) nascono tutte da questo processo, che ho potuto mettere in atto durante il periodo del lockdown, dove il tempo era come sospeso.

Prima di tutto ci tengo a specificare che io non ho una formazione da fotografa e non sono una fotografa. Mi sono avvicinata alla fotografia quando ho cominciato a lavorare a progetti site specific molto grandi, ad esempio sculture anche di sette metri che non potevo ovviamente realizzare con le mie mani, e quindi l'unico modo che avevo per seguire passo dopo passo la loro realizzazione, era documentarla con la fotografia. A un certo punto queste immagini sbagliate, fuori fuoco, mosse, sono diventate interessanti. Ho cominciato a giocarci e a manipolarle tramite la tecnica del collage, che è una delle mie preferite perché credo che tutto quello che faccio sia riconducibile al collage: mettere insieme elementi diversi sia a livello fisico che a livello concettuale.

 

 

 

 

Marcella: Questa cosa infatti emerge, sia dall'intervento a distanza di tempo che dalle varie tecniche e anche dai diversi materiali utilizzati sulla base delle esigenze strumentali del momento. Tra i tanti materiali che utilizzi c'è il vetro, un elemento che ritorna molto spesso. Una volta hai definito la sua qualità di trasparenza come la caratteristica che più ti seduce e ti intriga: “il vetro è un supporto interessante perché a causa della sua trasparenza non è un supporto”. Potresti approfondire?

 

Mariella: Tutto quello che noi facciamo come artisti ha un supporto, che possa essere tela, carta, carta fotografica e così via. Mentre il vetro non è un supporto, nel senso che è possibile stampare tutto quello che si vuole su di esso lasciandone delle parti libere che di per sé non esistono, quindi ecco il fascino del vetro: la sua assenza, la sua non presenza, la sua mancanza di fisicità.

 

Marcella: La parte intrigante rispetto al discorso del supporto è anche vedere come chimicamente reagiscono i vari materiali: se tieni un processo ortodosso, per non dire classico, sai già che cosa ottieni e quindi controlli il risultato. Però la tua pratica è di un altro tipo: tu sfrutti il processo per testare e vedere che cosa accade, un'associazione di elementi che un po' è data dal supporto, dal materiale e un pò dalle caratteristiche intrinseche date dal concetto, dall'idea. L’opera viene generata da questo incontro/scontro. Io trovo questa tua modalità di lavoro molto coerente rispetto al tuo essere artista.

 

Mariella: È proprio il non saper fare una cosa che ti permette di sperimentare, di metterti in gioco. Per esempio, quando ho cominciato a disegnare tramite tavoletta grafica non riuscivo a coordinare i movimenti occhio mano perché lo sguardo era dissociato: osservavo lo schermo del computer e però al contempo non potevo vedere i movimenti della mia mano, come invece ero abituata a fare disegnando su carta. Dopo un po' di esercizio ho imparato e riuscivo a disegnare esattamente quello che immaginavo, a tal punto che sono ricaduta negli stessi cliché. Per continuare a sperimentare con questa nuova modalità di disegno ho quindi deciso di disegnare a occhi chiusi e così ho ottenuto qualcosa di interessante.

Il mio ripartire ogni volta da zero, come se non sapessi nulla (in realtà non è vero, io conosco tutto ma anche dimentico tutto, “dimenticare a memoria”) permette di aprire nuove vie.

 

Marcella: Parlando di futuro, Giacinto Di Pietrantonio nel volume “L’era successiva” dichiara: “l'arte di Mariella Bettineschi è una promessa sul futuro”. A tuo parere, dov'è il futuro?

 

Mariella: Nella dimensione sconosciuta. Che sta arrivando, è quasi qui, l'intelligenza artificiale è qualcosa che sconvolgerà tutto, qualcosa di cui sappiamo ancora pochissimo ma la mia intuizione mi suggerisce essere una cosa enorme. L’aspetto fondamentale di cui bisogna sempre ricordarsi è che il futuro è aperto e sta proprio lì la bellezza: nel non sapere che cosa succederà.

 

Concludo con un pensiero: noi artisti, sparpagliati nel mondo e con i nomi più strani, fra di noi neanche ci conosciamo, però siamo come delle lucine nella notte e ognuno per conto suo tiene ancora accese alcune cose fondamentali. Il mondo è sempre più stereotipato, sempre più dato da qualcuno e subito gioiosamente (o dolorosamente) da qualcun altro. Se c'è un ruolo per l'artista è quello di tenere accese, con il proprio lavoro, quelle lucine, indicando una direzione, presidiando le cose che hanno a che fare con la visione utopica della dimensione umana, accompagnarlo verso L’era successiva.

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