Mariella Bettineschi
Hans Gercke, La vestizione della sposa
Catalogo mostra Heidelberger Kunstverain, Heidelberg, 1999
“Si sta sopravvalutando il silenzio di Marcel Duchamp”, annota Joseph Beuys.
Mariella Bettineschi approverebbe senza dubbio questa affermazione e va ancora oltre: “la sposa messa a nudo dai suoi pretendenti” viene rivestita.
L’artista chiama la sua mostra di Heidelberg “La vestizione della sposa” e richiama l’attenzione a parole affini connesse a questo concetto: non si tratta soltanto dell’abito, anche se l’abito in senso letterale ha acquistato un significato importante in una determinata fase del lavoro dell’artista, bensì dell’investitura, della vestizione nel senso dell’essere assunto, da parte di una persona, nei suoi diritti, del conferimento della posizione che le compete.
In questo contesto sono interessanti le indicazioni date da Elio Grazioli in un testo degno di nota, scritto per Mariella Bettineschi nel 1997: la parola tedesca Freier (pretendente) è imparentata con Freiheit (libertà) e Friede (pace), valori che hanno bisogno di Einfriedung (recinzione), di protezione.
Infatti, l’abito è per Mariella Bettineschi il primo anello protettivo che cinge il corpo umano, una forma primordiale ed elementare d’architettura. Nella lingua italiana il termine abito è connesso a quello di abitare. E’ in questo campo di tensione tra il dentro e il fuori, tra sensazione e ambiente, che si sviluppa l’attività creativa complessa, tanto precisa quanto poetica, dell’artista.
La provocatoria citazione di Duchamp non segnala nostalgia del passato. La rielaborazione retrospettiva di elementi di una unità infranta inseribile a piacere, magari secondo l’atteggiamento indifferente post-moderno, non è cosa di Bettineschi.
Quello che importa, invece, è di staccarsi da quella freddezza razionale analitica dell’individualizzazione, a cui la “messa a nudo della sposa” ha portato.
E’ ritrovare il narrare, restituire l’aura, lo spazio attorno che collega i frammenti del mondo, malgrado oggi, non lo si possa più cogliere come intero. E’ costruire un contesto che renda giustizia alla complessità dei rapporti tra le cose. E’ in fondo comunicazione.
L’opera di Mariella Bettineschi non può essere ridotta ad un solo determinatore formale.
Essa odia il pensiero a reparti stagni, ripugna qualunque ideologia. Perché uno dei fenomeni che si sono manifestati in seguito al silenzio di Duchamp – per coloro che non voltarono, come lui, le spalle all’arte, ma osarono continuare a fare arte, dopo quel punto zero – era proprio quello della ricerca, talvolta quasi coatta, di una nicchia quale territorio di una Corporate identity accuratamente protetta e che poi doveva essere gelosamente difesa di fronte concorrenti.
Mariella Bettineschi non parte da presupposti formali, non essendo interessata alla forma come punto di partenza del suo lavoro.
La sua identità artistica si basa piuttosto su un concetto mentale che non vuol dire concetto solo razionale, ma procedimento ampio, che racchiude esperienze mentali e sensibili e spinge verso la comunicazione, e da cui si sviluppa un narrare che ogni volta cerca, nuovamente, le forme, le tecniche necessarie.
Con questa libertà antidogmatica Mariella Bettineschi impersona un procedimento per nulla ovvio nella sua generazione, ma oggi sempre più diffuso: infatti molti artisti si servono con leggerezza, niente affatto sinonimo di indifferenza, di linguaggi differenti, giocano su più tasti, senza paura di violare lo spazio aereo altrui e senza temere di essere abbattuti dalla loro stessa contraerea.
Guardando la biografia dell’artista vediamo all’inizio una formazione accademica, benché tradizionale, aperta a molte esperienze.
Dopo alcune mostre, seguono anni di ritiro e di ricerca della propria identità.
Nel 1980 poi Mariella Bettineschi si fa notare con i primi interventi nello spazio pubblico. Seguono mostre con opere straniate, carte manipolate fino a far cambiare completamente il loro carattere materiale. E’ quello che noi comunemente riteniamo essere la loro sostanza che Mariella Bettineschi scandaglia.
Achille Bonito Oliva nota il suo lavoro, la invita alla XLIII Biennale di Venezia.
In seguito alla sua indagine del carattere complesso e ambivalente del colore blu, attraverso opere di estrema riduzione formale, partecipa nel 1990 alla mostra Blau farbe der ferne presso l’Heidelberger Kunstverain.
Tra i numerosi lavori che nasceranno in spazi pubblici è da segnalare il bellissimo Carro Celeste che Mariella Bettineschi ha creato nel 1994 per il progetto di Amnon Barzel The European sculture City, a Turku, Finlandia.
Nel 1995 viene esposto per la prima volta un grande ciclo di disegni che Mariella Bettineschi chiama Appunti.
Sono in fondo opere plastiche nelle quali la designazione aforistica della carta – progetti di architettura velocemente abbozzati, ma anche segni semplici, punti, linee che si incrociano, stelle e brevi notazioni verbali – si uniscono a citazioni fotografiche e incisioni spaziali. Allusione all’ornamento e all’organico, concisa come un haiku.
Intersezioni e sfondamenti, stratificazioni, un ruotare e giocare attorno a formazioni centrate, aperture, gemme. Fiorisce allora, attraverso invenzioni tanto vigorose quanto delicate, quasi dal nulla, un cosmo ricco, denso di relazioni. Perforazione e taglio ricordano qualche volta Fontana, e Fontana si intitola poi anche un foglio che, come per incantesimo, con pochi tagli, ne fa emergere una di fontana da una pagina di libro stampata.
Mariella Bettineschi in fondo è scultrice. Ciò dimostrano anche gli abiti che realizza nel 1996, usando carta, ma anche altri materiali. Frammenti di dime, abbreviazioni disegnate, fotografie, proiezioni fanno nascere da questa fonte un cosmo complesso, significativo per la creazione attuale dell’artista.
Economia e disciplina formale si uniscono delicatamente bilanciate ad un complesso riferimento spaziale concettuale che fa di ogni mostra dell’artista un’esperienza speciale.
Non intende mai fare una presentazione più o meno additiva, ma sempre una messa in scena molto specifica, riferita allo spazio, precisamente progettata in loco.
Negli ultimi anni, la luce gioca un ruolo sempre più importante nell’opera di Mariella Bettineschi. La mostra di Heidelberg è primariamente dedicata a questo tema, ma, come accennato dal titolo, non si tratta tanto della luce in quanto fenomeno isolato, quanto della sua forza, che sfiora giocosamente le cose, le trasforma, le veste, traveste, capace di creare, dalla materia, rappresentazione, visioni.
Per tre anni Bettineschi ha scattato fotografie; per la sua caccia ha preferito il periodo che promette luce, quello natalizio. Alla fine, il suo bottino consisteva in un fondo di circa 4.000 diapositive, di cui lei ha scelto, in parte ulteriormente elaborato, ciò che ora viene distillato dall’abbondanza del materiale.
Nasce così il corpo centrale della mostra, fatto da cinque grandi lastre di vetro sulle quali sono stampate le immagini trasferite dalla loro realtà originale.
Nella nuova realtà della mostra e del catalogo – che esso stesso non semplice documentazione, ma strumento di narrazioni parallele – costituiscono una condensazione di esperienze che diventa un mezzo di comunicazione.
Tale procedimento non differisce del tutto dal gesto di Duchamp, precedente al suo silenzio, in cui egli postulò che fosse unicamente il cambio del contesto a fare del quotidiano ciò che noi riteniamo essere arte.
Mariella Bettineschi non si ritira una posizione anteriore a questo riconoscimento, anche se non lo assume come un dato nudo, disincarnate. Piuttosto lo fa diventare punto di partenza di un gioco politico a più piani, ambiguo come il frammento di realtà che in qualche luogo si è impigliato nella sua trappola.
Ecco che il frammento viene restituito in modo nuovo, la complessità del suo contesto perduto. Questo avviene attraverso fasi molteplici di elaborazione, attraverso la trasposizione sopra – o più precisamente: dietro – una lastra di vetro che ora entra a sua volta in corrispondenza con uno spazio nuovo, diverso, con luce e ombra, con modi differenti di percezione.
Nell’opera di Mariella Bettineschi si uniscono elementi contrapposti chiaro scuro, luce ombra – non come estremi ma con tutta la pienezza dei loro effetti reciproci – delicatezza e fermezza, sogno lucidità, evidenza e segreto, precisione incondizionata e una leggerezza giocosa, serena, italiana – non si esclude l’attività creativa dell’artista, bensì si integrano a vicenda in maniera essenziale specifica.