Mariella Bettineschi
Mondo del Mondo, Mondo dell’Arte e Mondo d’Arte costituiscono una triade fondante a vari strati il Mondo Poetico di Mariella Bettineschi, che, essendo un Mondo fatto con Arte, contiene tutti i Mondi: Mondo dell’alto e del pensiero, Mondo del basso e della concretezza, Mondo del qua e della realtà, Mondo di là e dell’immaginario, Mondo del finito e Mondo dell’infinito. Mondo e Mondi appartenenti, da che Mondo è Mondo, alla sfera totale della creazione. Per questo, gli artisti, come indicava Alighiero Boetti con una sua nota opera, Mettono al Mondo il Mondo. Diremo, quindi, che il Mondo espressivo di Mariella Bettineschi è un Mondo fatto ad arte complesso e multiforme che ci dice molto del Mondo.
L’arte è da sempre un Mondo che ci permette di guardare il Mondo in modo diverso e dunque di avanzare ipotesi di un Nuovo Mondo e con ciò portare la nostra esistenza in un tempo differente. Tutto questo Mondo espressivo è premessa del futuro e quindi di un’Era successiva, come l’artista ha inteso chiamare la sua opera, o meglio il suo Mondo d’Arte dal 2008 in avanti. Soprattutto a questa si riferisce la pubblicazione che avete tra le mani e sotto gli occhi, perché, come ebbe a dire il poeta Josif Brodskij nel discorso del ricevimento del Nobel, 1987: “Non esiste futuro al di fuori di ciò che l’arte promette”. Possiamo dunque affermare che l’arte di Mariella Bettineschi è una promessa di futuro, un tempo successivo di cui si ha carenza negli ultimi tempi ripiegati su se stessi, su un qui ed ora in cui il Mondo si presenta come attualità, dato di fatto e non più come speranza di costruzione del dopo, mentre, come dice Gerhard Richter: L’arte è la forma più alta di speranza e dunque di futuro. È in tale direzione di promessa a lavorare la nostra artista nella speranza che le cose possano mutare. A ciò non è estraneo il fatto che è una donna, la quale non solo mette al Mondo la vita umana, dando continuità e futuro al Mondo, ma che, come artista, mette al Mondo l’Arte. Difatti, anche se negli ultimi tempi è venuta meno la marginalizzazione della donna nell’arte, da sempre circola l’idea, nel Mondo dell’Arte, che la donna in quanto creatrice dell’umanità, esaurisca, o quasi, la sua creatività nella creazione biologica. La Bettineschi con la sua opera densa e complessa da oltre cinquant’anni sconfessa questa credenza al pari di altre artiste donne che stanno rivelando sempre più questa verità successiva. Lei non ha smesso di essere artista, perché madre, anzi, anche per questo essa già agli inizi, in tempi in cui figlie e figli avrebbero dovuto ereditare il nome di nonne, o nonni, si discosta da questa tradizione chiamando l’unico figlio Tiziano.
Ciò per Bettineschi, che nasce e vive tra Brescia e Bergamo, significa inserirsi consapevolmente nella tradizione della cultura veneta a cui questa parte d’Italia è appartenuta prima di passare alla Lombardia. Una decisione quella stare nella “scuola veneta” fatta di luce che ricorre in molte parti della sua Arte.
Arte all’Arte per senso della tradizione, Arte alla Vita per destino della creazione, Arte e Vita per essenza dell’esistenza, Arte e Vita dell’Arte per biografia alternativa. Così, ogni opera d’Arte di Mariella Bettineschi è un tassello rivolto alla costruzione del senso dell’Arte, del perché, del per chi e del per come facciamo Arte, ma anche del perché necessitiamo dell’Arte e cosa ce ne facciamo di essa una volta che l’artista ce l’ha donata. Da che mondo è mondo sono questioni a cui gli artisti cercano di dare risposte e il senso del mondo non esisterebbe senza l’Arte. Difatti non solo lo studio dell’Arte, ma anche delle neuroscienze, o dell’antropologia, o…, ricercano nell’Arte la nascita evolutiva, e non, dell’uomo che con essa ha inteso celebrare vita e morte. L’Arte è ragione di vita, futuro, memoria, passato, essere e attualità. Sono tempi e temi di fronte ai quali ci pongono le opere della Bettineschi che si danno a volte come paesaggi, altre come figure umane, altre ancora come depositi della cultura, altre come mondi altri e successivi che ci dicono della possibilità di resistere ed esistere culturalmente nella lingua dell’arte che continuamente si Riforma.
Riforma del segno, Riforma dell’immagine, Riforma della forma ecco un altro vocabolo suggerito dall’opera dell’artista che con tenacia porta avanti da anni un lavoro volto a sperimentare strade diverse. Un’opera il cui filo conduttore è quello della ricerca instancabile di segni, forme, immagini che non vengono contestate, ma rielaborate nel segno di molte tradizioni, perché consapevole che non si costruisce il futuro nel presente senza la consapevolezza del passato. Così noi riconosciamo, naturalmente riedite in uno stile proprio: forme dell’informe, immagini del rinascimento, segni della classicità di mondi e modi volti a costruire da anni un corpus unico in senso di continuità e contenuto. L’opera è così portatrice di molte verità, tramite una liturgia di forme e contenuti non basate su un’ideologia, non sulla fede, ma sul pensiero e successione di idee dell’Idea.
Idea dell’arte, Idea della vita, Idea della creazione attengono all’opera dell’artista foriera di pensieri che cercano di estrapolare dalla massa di immagini da cui siamo circondati significati alternativi. Difatti molte delle immagini che l’artista utilizza sono prelievi provenienti dal flusso dello scorrimento visivo che le televisioni ci rovesciano quotidianamente addosso. Quello di interfacciarsi con esse, rimontandole in una sorta di azione visiva situazionista è ciò che fa Mariella, così che dal confronto di immagini contrapposte si generi una sorta di critica sociale. L’arte è, così, chiamata a generare nuove idee, proposte e significati altri. In questa tecnica compositiva, che ha molto di contemporaneo, persiste tuttavia la dimensione compositiva del dittico, tecnica antica che serve a proporre un’alternanza di storie. La storia, infatti, non è mai più una sola, perché i livelli delle narrazioni si contrappongo, stratificandosi come mondo e mondo alla rovescia. In tali opere da lei create, le immagini doppie sono messe in relazione per sottolineare soprattutto situazioni di guerra, segnalando, in tal modo, il tempo di scontro in cui viviamo e dunque spingere ad una riflessione responsabile che ci mette davanti alla nostra onestà morale ed Etica.
Etica della creazione alternata, Etica della condizione duale, Etica del comportamento che teniamo di fronte ai concetti di bene e male, Etica espressa dalle “immagini di guerra” raddoppiate. È l’Etica dell’uso che facciamo delle immagini, immagini che sappiamo non sempre vere, perché spesso manipolate, in quanto volte alla creazione di consensi estorti tramite fake news anche quando esse ci mettono “davanti al dolore degli altri” per impiegare una densa proposizione di Susan Sontag del 2003. L’arte della Bettineschi diviene, così, un campo di battaglia in cui il linguaggio combatte la guerra dei significati a colpi di immagini, perché sempre foriera di verità. L’arte, infatti, non finge e quando lo fa assume la finzione come linguaggio scoperto, e per questo portatore di realtà, creazione di senso, senso della verità. Per cui, se il flusso delle immagini della società dello spettacolo, Debord, 1967, ci accerchiano allo scopo di alienarci, quelle dell’arte – con la proposta situazionista di detournare il linguaggio, di criticarlo, di minarlo con la creazione di una critica sociale che la nostra artista assume- rivela una nuova etica del linguaggio del’arte. Per questo si inserisce in quella linea creativa della critica alla guerra che va da Guerra alla guerra, 1924, di Ernst Friedrich fino a Fabio Mauri di Linguaggio è guerra, 1975, ed ora all’Era successiva di Mariella Bettineschi, 2008, tutte rivolte all’esercizio dell’etica della Libertà.
Libertà dello Spirito, Libertà di Pensiero sono racchiuse nella Libertà dell’Arte che l’artista si impegna a garantire con la propria libertà stilistica. È la libertà di dissentire tra un periodo e l’altro, facendoli convivere, creandoli in contemporanea, in parallelo. I linguaggi si intersecano, perché la libertà non è mai data una volta per tutte, ma conquistata continuamente, in quanto il suo limite e senso vanno sempre spostati e rinnovati in successione. Certo, se pensiamo alle opere della Bettineschi come un manifesto, un’illustrazione a tema non ne cogliamo il perché e il come esse ci parlano della libertà dell’essere, in quanto, quella della libertà, non è una strada facile, né diritta; ma è proprio la diversità di azioni, segni, immagini proposte a metterci davanti alla libertà. Ogni suo percorso mette in discussione l’altro, ogni forma ne contraddice un’altra e questo è sì un manifesto, un inno alla differenza. Si tratta di un viaggio di scoperta come conoscenza nel senso di Proust per il quale: “Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuovi territori, ma nel possedere altri occhi, vedere l’universo attraverso gli occhi di un altro, di centinaia d’altri: di osservare il centinaio di universi che ciascuno di loro osserva, che ciascuno di loro è”. L’universo diverso che è il multiverso di molti mondi anche qui costruiti per immagini relazionate del nostro e altri mondi del nostro linguaggio e altri linguaggi sintetizzati dall’arte che crea Linguaggio.
Linguaggio del Visivo, Linguaggio dell’Idioma, Linguaggio della comunicazione, soprattutto lotta antichissima tra Linguaggio della parola e Linguaggio dell’immagine, tra chi afferma e crede che in principio era il verbo e chi crede che all’inizio era l’immagine. Con quale Linguaggio abbiamo iniziato ad esprimerci con quello della parola detta e scritta, o con quella dell’immagine disegnata o dipinta? Sarebbe banale affermare che l’artista visivo in quanto tale ha fatto una scelta di campo in favore dell’immagine, perché una lunga tradizione concettuale, per quanto riguarda la nostra arte moderna e contemporanea, è lì ad affermare il contrario. Non va neppure dimenticato che ancor prima c’era una parte del mondo generatosi fra tigri ed Eufrate che tra ebraismo prima e islamismo poi ha preferito parola e scrittura all’immagine. Guardando l’arte colma di immagini di Mariella Bettineschi non ci vuol molto a capire da che parte, come artista, ha deciso di stare. Naturalmente ciò non vuol dire che nel suo lavoro non ci sia un aspetto concettuale, ma si tratta di quella concettualità che necessita dell’immagine per essere fin dal principio. È questa la via occidentale all’arte, quella che si è distaccata anche dall’ortodossia religiosa orientale, decidendo di continuare la via figurativa dell’arte e della sua Armonia.
Armonia, Armonia accordo di sensi, Armonia concordia dei segni, Armonia proporzione delle forme contrastanti, Armonia aura dell’arte che la classicità ha individuato come suo canone di fondazione. Proviene dal greco harmonia: proporzione, unione, accordo a sua volta originato dal verbo harmozein: congiungere, accordare che si ricollega anche ad harmos, giuntura. E la giuntura è presente in molte delle sue opere: sia in quelle che oppongono scene di guerra e armi a paesaggi di cui abbiamo appena detto che in altri con cui si congiungono paesaggi terrestri ed extraterresti, o natura e scienza, o di immagini varie con una parte bianca che è luce, spazio puro. Armonizzare queste diversità è un altro degli scopi dell’arte di cui sci stiamo occupando, la quale trova, oltre che nella dualità, nella giuntura il senso di collegamento non solo come riflesso, ma quale giustapposizione dialogante voluta e cercata dall’artista. È una giuntura di conciliazione in cui, secondo Hegel, sta la verità. Nessuna casualità nell’opera di Bettineschi, ma ricerca e selezione per la costruzione di un armonia dei corpi che ha in molti casi una bellezza cosmologica in cui si sana il conflitto di forme, segni e immagini. Un destino creativo che rinvia ad Eraclito per il quale è dagli elementi che discordano che si ha la più bella armonia e quando quest’ultima si compie nell’arte produce elementi di grande Bellezza.
Bellezza del Vero e di Aristotele, Bellezza del Fatto e di Vico, Bellezza della Natura e di Kant, Bellezza del Sé dell’Altro e del dualismo sta alla base del tracciato dell’opera di Bettineschi. Difatti i suoi lavori sono sempre forme compiute che, come detto, sottendono una dimensione di classicità e di armonia aurea. In quest’ambito essa è un artista antica che non ha inteso parteggiare per l’estetica moderna dell’antigrazioso, in cui e in nome del quale la forma si spezza e si distorce, si velocizza, si fa rapida. Ciò dimostrato dal fatto che una certa linearità percorre sempre l’opera di Mariella; opera fatta di parti accostate, luci evanescenti, bianchi abbaglianti. Gli stessi soggetti moderni, o ipermoderni: missili, razzi, astronavi stanno immobili, colti come fermo immagine, ricondotti così nell’alveo dove principia la sintesi di bellezza della forma e del pensiero, culla classica occidentale dell’Essere.
Essere del chi siamo, Essere del da dove veniamo, Essere del dove andiamo, benché siano principalmente delle domande della filosofia, l’arte che tutto contiene, compresa la filosofia, si pone anch’essa nel percorso del destino dell’Essere. Ciò avviene soprattutto quando non si manifesta come illustrazione di ideologie di servizio per affondare, invece, il suo essere nel magma della creazione quale essenza dell’essere e del non essere. Essere e apparire, essere qui, o essere altrove, essere se stessi, o essere l’altro, esseri concreti ed esseri immaginari fino ad esseri terrestri, o esseri extraterrestri sono trattati dalla sua arte in cui tutto diventa reale in quanto linguaggio. È il linguaggio dell’arte che, come sottolinea Ad Reinhardt, fa si che: “L’arte è arte-in quanto-arte e qualunque altra cosa è qualunque altra cosa. L’essere-in-quanto-arte non è nient’altro che arte.” Essere e cosa, Essere e Tempo sono dimensioni che troviamo nelle immagini di Mariella e interrogativi passati su cui si è esercitato Martin Heidegger che rinviene nell’arte “uno squarcio di verità”. Così, tutto è vero nell’arte anche l’apparire di mondi altri, come in quelli della Bettineschi, dove ogni tempo nutre l’arte che, in quanto linguaggio, è soggetto all’interpretazione del Tempo.
Tempo che ha inizio, Tempo di scorrimento e fine quando è freccia evolutiva, o geometria di avvitamento circolare in cui tutto ritorna, da cui Picasso dice: “Tutto l’interesse dell’arte è nel principio. Dopo il principio è già la fine,” o Einstein per il quale: “La divisione tra passato, presente e futuro è solo un’illusione ostinatamente persistente.” Nelle opere della Bettineschi naturalmente il tempo, anzi i tempi iniziano e si intersecano nell’attualità delle immagini della lotta politica globale, in special modo le primavere arabe con il passato della tradizione dell’arte, soprattutto il Rinascimento, futuro della scienza e della fantascienza. Ma il tempo e i tempi nelle sue immagini è/sono congelato/i nel senza tempo dell’arte, della sua arte le cui immagini, anche quelle del presente, vengono sottratte dall’artista al gioco reale dell’attualità e date come apparizioni, fantasmi. Ciò è evidente nella scelta dell’impiego della fotografia, un mezzo che solo apparentemente ci rende conto della realtà, essendo, al contrario, sempre fantasmatico. E di fantasmi, presenze, ectoplasmi di luce sono popolate le opere in questione. Luce e luci sono i suoi fuochi visivi, i segni significanti, ciò che diffonde energia. liberando le immagini dalla staticità fotografica, aprendone il tempo. Queste ci fanno pensare a presenze di tempo e tempi che alludono ad altri mondi costruiti figurativamente da un’artista che mostra opere realizzate impiegando una grande abilità Tecnica.
Tecnica del disegno, Tecnica della pittura, Tecnica del ricamo sono alcune delle tecniche impiegate da anni da Mariella Bettineschi, ma è quella della fotografia a prevalere nelle opere d’arte dell’ultimo decennio che stiamo analizzando. Si tratta di una tecnica di cui ancora Susan Sontag, nel suo saggio Sulla fotografia del 1977, dice che: “Il pittore costruisce, la foto rivela,” cogliendo, così, il punto della questione dell’arte chiamata tecnica per gli antichi greci. Difatti, il lavoro della Bettineschi impiega la fotografia pensando alla pittura non solo come soggetto, ma come tecnica e approccio. Le sue opere sono sempre fotografie preesistenti, prelevate, manipolate, “dipinte” utilizzando tecniche computerizzate e poi stampate su plexiglass, o su specchio, ancora una volontà di raddoppiare l’immagine. Sappiamo che sin dalla nascita la fotografia ha cercato di somigliare alla pittura sia formalmente che concettualmente, perché aspirava ad essere arte che vuol dire liberarsi dalla tecnica. Si tratta di un approccio che continua ancora oggi, un confine dell’arte che gli artisti stanno affrontando in maniera nuova, almeno a partire dalla metà-fine anni ottanta com’è evidente nel rapporto maestri-allievi-maestri, sintetizzato nella relazione che intercorre tra i Becher e i loro discepoli come Gursky, Ruff, Hofer,… Come detto, se all’apparenza molta opera di oggi ci appare come fotografica, di fatto si tratta di opera di pittura, una relazione fondante l’arte di sempre, ma soprattutto quello dell’epoca digitale in cui viviamo. La foto anche quando è prelevata già fatta, quale ready made visivo, come nel caso della Bettineschi, viene oggi sottoposta ad un’operazione di “pittura”, cosa che appare con tutta evidenza in alcune opere-paesaggio della serie dell’Era successiva del 2012. Infatti esse sembrano una “citazione” dalle ninfee di Monet. Ciò a dimostrazione del fatto che l’immagine è sempre ri-costruita, rifatta a partire già dall’occhio che la sceglie e la mano che la manipola, tecniche volte alla realizzazione di un’arte a forte Identità.
Identità dell’essere, Identità della tecnica, Identità di scelta dell’arte sono tutte fasi che portano alla costruzione dell’identità dell’artista Bettineschi dallo stile e identità inconfondibili. Certamente in tempi di postcolonialismo, globalizzazione, gender in cui viviamo cercare tracce di questo mutamento nelle opere e nella vita di chiunque è d’obbligo, ma nelle opere della nostra nulla di tutto ciò è a prima vista presente. Tuttavia, essa è un’artista che, anche in quanto donna, affida alla sua arte il compito di reagire in qualche modo ai turbamenti, alle crisi del mondo, soprattutto, come dice lei, a partire dal 2008, anno di inizio della crisi globale in cui siamo venuti a trovarci. È una disfunzione del mondo coincidente con l’inizio della serie de l’Era successiva con cui l’artista incomincia a guardare diversamente il mondo, un mondo in crisi che, a detta della stessa, può essere affidato solo alla cura delle donne. Questo chiarisce il suo interesse espresso per le donne di Rinascimento, Manierismo e Barocco, in cui l’attenzione è appuntata sui ritratti di donne consegnatici da grandi artisti: Leonardo, Raffaello, Tiziano, Vermeer, Bronzino, Caravaggio, …, e riletti dalla nostra in chiave contemporanea. Si tratta anche qui di prelievi di immagini, digitalizzazione e costruzione di un modo diverso di guardare, in compagnia di artisti sempre alla ricerca di una chance successiva, e agire nella tradizione alla ricerca del Nuovo.
Nuovo Modo di guardare l’Arte, Nuovo modo di fare l’Arte, Nuovo Modo di essere Arte, il nuovo e il successivo sembrano essere termini apparentati al futuro, ma non si da nuovo, né successivo senza qualcosa che precede. A precedere nel nostro caso sono le immagini preesistenti, già date, già pronte a cui l’artista da un nuovo senso. Sono immagini d’attualità, ma anche della storia e dell’arte in continuo dialogo, perché, come diceva Seneca: “Ogni nuovo inizio proviene da un altro inizio.” Siamo qui a parlare di un’opera di molti inizi e quindi di diverse novità. Va da se che questa relazione tra prima e dopo emerge in maniera forte, specialmente nelle opere che, grazie alla tesi del re-inizio di Seneca, potremmo chiamare del ri-ritratto. Si tratta delle opere della nostra artista che ritornano sui ritratti antichi tramite la fotografia in bianco e nero. Sottraendo colore, potremmo dire che essa sottrae espressività, ma non estetica, in quanto la scelta del “non colore, il “b/n” da che è nata la fotografia è una precisa scelta estetica, perché è un lavorare sul minimalismo di luce e ombra che già Man Ray aveva compreso dicendo che: “La luce può fare tutto. Le ombre lavorano per me. Io faccio le ombre. Io faccio la luce. Io posso creare tutto con la mia macchina fotografica.” Ma Bettineschi non crea con la macchina fotografica, usa lo scanner, una tecnica di copiatura dell’immagine. Non fotografa la realtà ma copia tecnologicamente un’immagine della realtà dell’immagine pittorica. Infatti, oggi nessuno nessuno pensa più che sia necessario copiare dal vero le immagini, i copisti del Louvre per il sistema dell’arte moderna e contemporanea sono quasi folklore. Il confronto non è con la fonte diretta, ma con l’immagine che abbiamo di essa ed è con l’immagine che va vinta la sfida non con la realtà, anche perché l’immagine è la nuova realtà. Come detto, scegliere di trasferire le immagini di opere pittoriche dei grandi maestri in foto bianco e nero vuol dire accordarsi anche con la dimensione del Tempo, il tempo che fu. Il bianco e nero ci mette nella condizione del ricordo e dunque de la recherche del tempo perduto, ogni foto b/n è una piccola madeleine visiva e forse non a caso Proust, nel 1919, All’ombra delle fanciulle in fiore, scrive che: La fotografia acquista un po’ della dignità che le manca quando cessa di essere una riproduzione della realtà e ci mostra cose che non esistono più.” Ora, non è che le immagini di provenienza e soprattutto le opere pittoriche da cui provengono le nuove opere della Bettineschi non esistono più; sarebbe sciocco pensare che non esiste più la Gioconda di Leonardo al Louvre, o la Fornarina di Raffaello alla Galleria Borghese, o Giuditta e Oloferne alla Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Barberini, o …, anche se una certa idea del nuovo della modernità che aveva in spregio il passato si era attivata per una pulizia visiva in favore di un nuovo sguardo. Bettineschi, al contrario, recupera questo passato e lo rinnova usando non solo il passato, ma anche la concettualità e il minimalismo modernista. “Il nuovo non si inventa, si scopre” recita Pascoli, spalleggiato da Foscolo che declama: “L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentarle con novità,” tant’è che l’artista non solo traduce le immagini in questione, ma le mette in relazione con un quadrato bianco inferiore, come se l’immagine poggiasse su una base. La base, soprattutto la base bianca è l’oggetto concettuale per antonomasia su cui l’arte moderna ha poggiato qualsiasi cosa per far si che ogni cosa potesse essere arte. Tuttavia qui si fonde anche con l’idea malevicina dello spazio, così che dialogando con il bianco supremo l’opera della Bettineschi, ancora una volta, raddoppia il dialogo tra immagine e sua assenza, tra passato e presente e, saggiamente, come suggerisce Confucio con: “Chi torna per la vecchia strada per imparare il nuovo, può essere considerato un maestro” e dunque essere Esemplare.
Esemplare Unico, Esemplare Molteplice, Esemplare Modello: sono condizioni e relazioni base su cui si articolano oggi le opere d’arte qualunque esse siano. Condizioni e relazioni ancor più evidenti e cruciali del nostro tempo, in quanto rapportate al mondo delle immagini, divenute esse stesse realtà di un’epoca che, per dirla con Guy Debord: “… preferisce l’immagine alla cosa, la copia all’originale, la rappresentazione alla realtà, l’apparenza all’essere.” E dunque cosa può l’arte in un mondo in cui, ancora Debord: “il consumatore reale diventa consumatore di illusioni.” e dove “La merce è questa illusione effettivamente reale. E lo spettacolo la sua manifestazione generale.” in un “… mondo realmente rovesciato. Dove il vero è un momento del falso.”? A tali questioni l’arte cerca da sempre di trovare una via d’uscita: da un lato ascoltando Picasso per il quale “l’arte è una menzogna che ci permette di conoscere la verità” e dall’altro ribaltando la tesi della perdita dell’aura “dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” profetizzata, nel 1936, dal filosofo tedesco Walter Benjamin. Per i tempi in cui viviamo sono tesi alle quali non si può sottrarre nessuna opera d’arte e a cui l’arte reagisce con una restituzione d’umanesimo, come possiamo cogliere nelle opere di Mariella Bettineschi. Si tratta di una modalità operativa che, impiegando l’arte come un cavallo di Troia, prova dall’interno a superare la tecnica con un contenuto umanistico, che vuol dire esemplare. Tale relazione tra esemplari unici, molteplici e modelli, come detto, non è nuovo, anzi è tradizione dell’arte prendere ad esempio i maestri e cercare di differenziarsi un po’ più e un po’ meno a seconda dei casi. Per questo la citazione non è un delitto, come appare a molti, ma da sempre un modo esemplare di stare e fare arte, un arte che ci propone un altro modo di guardare alla stessa cosa e dunque un altro Sguardo.
Sguardo dell’Essere, Sguardo della Comunicazione, Sguardo dell’Uomo, Sguardo e Sguardi della Donna. Sguardi di doppio sguardi. Sguardi, perché raddoppiamento degli occhi dei ritratti delle donne di Mariella Bettineschi, che con queste opere afferma la possibilità dello sguardo altro della donna. Appuntare l’attenzione sugli occhi, principalmente sullo sguardo è parlare dell’unicità, perché ogni persona ha occhi unici, tanto che lo sguardo è una sorta di impronta digitale, e difatti, come non esistono due impronte digitali uguali, così non esiste uno sguardo uguale all’altro. Gli occhi con lo sguardo sono il primo mezzo di comunicazione e di evoluzione. Si parla, infatti, molto della mano prensile che ci ha permesso di evolverci rispetto agli altri animali, ma è pure l’alleanza con il senso della vista, grazie alla nostra posizione eretta, che abbiamo costruita la modernità sottolineata da Cartesio col suo “Cogito ergo sum”. Una filosofia dell’essere e del non essere che già i greci avevano individuato nello sguardo su cui avevano fondato vita e morte, tanto che, per dire che una persona non c’è più, non dicevano che aveva esalato l’ultimo respiro, ma l’ultimo sguardo. Sarà anche per questo che quando uno muore gli chiudiamo gli occhi: la vita finisce con il finire del visivo a cui era associato anche il suo uso retto e morale. Per cui, scegliere di agire sullo sguardo significa scegliere di agire sulla vita e la morte, sul bene e il male. Ora, dato che l’arte è un attività eminentemente visiva, lavorare sugli occhi vuol dire operare con una tautologia sull’idea dell’arte. Prendere un’immagine del passato e manipolarla non è certo una novità, Duchamp l’ha fatto con la Gioconda disegnandogli i baffi, la Bettineschi gli ha raddoppiato gli occhi, perché, come detto prima, lo sguardo è un’attività umana speciale, come insegna il filosofo cinese Confucio per il quale l’uomo che viene guardato nelle pupille non può più nascondere niente; significando che che a seconda di come guardiamo il mondo, esso diviene un’altra Cosa.
Cosa è l’Arte? Cosa ci fa vedere l’Arte? Cosa ci fa intendere l’Arte, Cosa siamo per l’Arte? L’Arte può esser Cosa? La Cosa può esser tutto e dunque anche l’Arte? Cosa questiona la Cosa? Cosa esprime l’arte in questione che, parafrasando Publio Cornelio Tacito, è consapevole del fatto che: “Tutte le cose che ora si credono antichissime furono nuove un tempo.” E dunque, una cosa che possiamo dire è che in quest’arte della Bettineschi si dibatte la relazione tra cose antiche e cose nuove, e anche tra cose di adesso e cose successive. Le cose qui sono immagini, rappresentazioni, insomma cose di cose. L’arte si occupa di cose, mostrandoci quali cose siamo, per usare una felice intuizione di Mendini, che, così facendo, fa da della Cosa una questione umanistica; ancora una riflessione e sottrazione alla tecnica fabbricatore di cose come oggetti. Infatti le cose prese in carico dall’arte non sono più oggetti, sono astrazioni, idee della realtà, la quale, a detta di Nietzsche, esiste solo nella nostra interpretazione. Per cui alla domanda di: Cosa è l’arte? L’arte della Bettineschi risponde che essa è quella cosa atta a regolare l’immagine dell’arte. Difatti, la cosa fondamentale dell’arte è darsi delle regole per poterle poi infrangere, cosa che lei fa in ogni sua opera e ciò è evidente nello scarto che produce relativamente alle immagini già date, dove le cose di prima diventano le cose del poi. Di cos’altro necessita l’arte per infrangere le regole e riscriverle se non di trovare una nuova misura come si evidenzia nel fatto che le immagini remote hanno bisogno non solo di essere raddoppiate nello sguardo e sottratte al colore per l’estetica moderna del bianco e nero, ma di essere ritagliate, rimisurate. Dunque, la scelta non sta solo nel prelievo di un’immagine nota, ma pure nella porzione da prelevare, nel dettaglio scelto, nella giusta misura, perché, come diceva paradossalmente Leonardo: “I dettagli fanno la perfezione e la perfezione non è un dettaglio.” E la perfezione, si sa, è cosa divina, tanto da far dire a Warburg che “Il buon Dio si annida nel dettaglio”, che trova, però il suo doppio contrario nell’antico proverbio senziente che il diavolo è nei dettagli. Notazioni e dicerie che alla fine ci portano ad asserire che è nel dettaglio che l’arte trova il suo H-H:ovvero il suo Habitat-Humus.
Habitat-Humus della Creazione è il luogo-terreno in cui l’arte trova il suo fertile ambiente culturale, il luogo fertile e sensibile nel e sul quale far crescere la propria poetica. Habitat-Humus di informe pitture dalle gradazioni dai toni di bruno. Cuscini e immagini in trasparenza di tulle. Aureole dorate di punti stellari. Raccolte di immagini passate e presenti in successione. … Ma sono le opere biblioteche a meritare in questa occasione una riflessione ulteriore. Biblioteche come Habitat-Humus, ambiente e deposito della cultura nel quale e sul quale cresce il sapere e per questo divenute altro soggetto privilegiato nel lavoro della Bettineschi. Ma pure qui, come nelle altre opere, la messa in immagine non è mai neutra e porta a una riflessione sullo stato delle cose. Non sono mero ritratto, anzi ne viene mostrata la fragilità, il pericolo di sparizione. Per questo la messa a fuoco è corrosa sia nello specchio di fondo che inserisce frammenti dell’habitat esterno nell’opera, come frammentati sono arte, esistenza e mondo che nei frammenti si riflettono aggiungendo dettagli da fuori, e sia in quella sorta di nebbia, alone, ectoplasma che ne corrode dal centro l’immagine, la messa a fuoco e dunque il realismo. Ma è anche opera-monito, opera-avvertenza, opera-memoria delle biblioteche distrutte, date alle fiamme da integralisti di varie epoche e luoghi, ma anche per alcuni altri dai media. In tal modo l’opera diviene metafora dei pericoli che corre la cultura depositata nelle biblioteche, il paradiso di Borges, in cui “Se Dio esistesse sarebbe una biblioteca”, Eco. Ecco il paradiso è in terra con la biblioteca: “… uno dei più bei paesaggi del mondo” secondo Jacques Sternberg e difatti nei lavori della Bettineschi tutto ciò si avverte nella relazione tra specchio (sapere del doppio), architettura (libri come mattoni della conoscenza), vaporizzazione (metafora dello spirito del pensiero). Si tratta di un omaggio al luogo eccellente tramite la sua messa in Immagine.
Immagine come unità delle Parti, Immagine come unità di Pensieri, Immagine come unità Universale al fine di concludere un testo redatto in un momento storico in cui tutto appare frammento (Mandelbrot), liquido (Bauman), caotico (Lorenz), disordinato (Prigogine), relativo (Einstein). Si tratta di un’azione necessaria per cercare di comprendere un’arte che, nella differenza e diversità del mondo, tenta di ricondurre all’unità di stile e pensiero le parti, servendosi della forza della creazione dello stile. In questo l’uso dello specchio frammentato come fondo di alcune opere della Bettineschi è eloquente, in quanto messo lì non per farci vedere, ma per lasciarci intravedere. In tal modo viene messa in discussione la qualità specifica dello specchio che è quello del riflesso come doppio, aprendo al multiplo come moltiplicazione variata in relazione alla statica duplicante della tecnica fotografica. Si tratta di molti modi di guardare, riaffermato, come già detto sopra-sopra, anche negli sguardi doppi di alcune delle sue opere. Sguardi e specchi multipli che frammentano la fissazione dell’Io Narciso postmoderno, avanzando l’ipotesi successiva in cui l’impiego di un oggetto di vanità e realismo, diviene un dispositivo concettuale, oggetto di moralità e prudenza. Si instaura, così, una vertigine della rappresentazione come continuo inseguirsi di raddoppio e moltiplicazione delle immagini e della realtà stessa che lascia l’ultima parola alla vertigo dell’immagine-opera dell’arte di Mariella Bettineschi.