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Francesco Bartoli, Tesori

catalogo mostra Spazio Temporaneo, Milano, 1985

I lavori di Mariella Bettineschi si dispongono sempre lungo tracciati significativi.  Delineano percorsi e sequenze simboliche. Tuttavia, ancor prima di cogliere il sottile disegno sotteso ai suoi calcolati allestimenti (in genere il disegno di un viaggio mentale), colpisce la qualità intima di un segno che nasce per evanescenza e resta sospeso nell’allusione. Né sai se sia più sfibrato che tenero, più secco e prosciugato che morbido, poiché le fratture stesse e gli strappi, le incisioni e le bruciature alle quali le materie vengono sottoposte, sfumano nella trasparenza.

Si direbbe che le immagini, nell’atto di modellarsi, abbiano avuto a che fare con il vento tanto appaiono lievi. Fili aerei, tenui lamine, bave di carta che un soffio può mutare di posto. Forse anche sono sabbie e polveri figuranti deserti.

Il fatto è che la Bettineschi insegue il frastagliato, il pulviscolare, l’elemento volatile dell’immagine. Anzi traduce le cose in battiti ed aliti. Quasi volesse schiodare il visibile e catturarne il segreto, cerca la geografia dei fiati dentro la perimetrata solidità delle figure. Corrode e liquefa in nome del fluido.

Per una simile attitudine, per un così pronunciato avvertimento dei valori minimali, capisco la sua predilezione per il personaggio di Paolo Uccello fantasticato da Marcel Schwob nei Ritratti immaginari: per un occhio, voglio dire capace, di disfare l’inerte petrosità del mondo, ossessionato dalla vertigine della cigliazione e tanto perduto nel movimento delle linee e dei colori da derubare la donna che lo amava e tutti gli esseri, dei loro tratti, per gettarli, finalmente liberati, nella laboriosa fucina delle forme e rinnovare in tal modo il miracolo della creazione. Egli “non conosceva la gioia di limitarsi all’individuo; non dimorava in nessun luogo; voleva alzarsi al di sopra di tutti i luoghi”. Ed alla fine “nessuno capiva più i suoi quadri. Non si vedeva più che un intrecciarsi di curve. Non si scorgevano più né la terra, né le piante, né gli animali, né gli uomini”.

Solo una ragnatela di elementi, di frange, linee, punti. O meglio, una tessitura di forme in cui vedi figure allo stato aurorale in una sorta di rinnovato principio delle cose.

E’ una mitografia dell’inventio, questa, che aiuta a decifrare la ricerca di quel fondo e gorgo di immagini che trascina  Mariella Bettineschi. Contiene la metafora creazionale del trar fuori un continente sommerso; un mondo lontano con il quale ricongiungersi.

In un’intensa pagina di appunti, scritta mentre stavano nascendo i Tesori che ora vengono esposti a Milano allo Spazio Temporaneo, leggo questa veloce osservazione: “Negazione, esplosione, negazione. / Negare il mondo. Vitalità del negativo. Erme. / Poi il mondo esplode di nuovo, come gesto e segno numero”.

Dunque l’apparenza va sgretolata, infranta, macinata; la fissità corrosa a vantaggio del vibratile. Ed il “mondo”, una volta eclissato, fatto prorompere di nuovo ad un livello più alto: nella sapienza, appunto, di quel che l’artista chiama “numero”.

In questa dichiarazione, a parte l’evidente “solve et coagula” evocato alle spalle delle parole, interessa in particolare far conto della fortissima nomenclatura, considerando che termini come “esplosione” e “gesta” non stanno certo dalla parte di una quintessenziale ed eterea qualità dell’esperienza o di un ‘asettica disincarnazione.

C’è un’ansia di legare i contrari, un desiderio di far combaciare l’organico con l’idea, che ha di mira i sensi, il corpo, la fattura concretamente materiata delle opere.

Quando, a proposito di Erme, affiora l’esercizio negativo, quel negativo è tutt’uno con il diroccamento dell’esistente, col silenzio e la cancellazione di ciò che è, nell’attesa di far posto ad una nuova visione. Ed è allora, soprattutto nei lunghi reliquari, che il registro sospeso dell’immagine trova ampio svolgimento. Non per nulla le teche che custodiscono i “presagi”, i segni in certo modo sonnambolici intuiti dalla mente, si stirano e tendono come feritoie. Acquistano anch’esse l’andamento di un sentiero e “camminano”, starei per dire, sul filo dell’orizzonte. Ecco: sono paesaggi, posti di osservazione, luoghi desertici fatti apposta per contemplare. Perfino rocce, gole, montagne che raccontano l’impervio avanzamento di un pensiero che insegue una sua lontanissima imago.

Lì, mentre si spia in un chiarore appena sufficiente per districare profili e sagome buie, si diffonde una luminescenza di grotta, liminare, come sprigionata dal basso, negli interstizi e nelle pieghe di cenere. A volte incontriamo invece una pagina nera di cielo. Ed è il velario di una costellazione fantastica, una pellicola del suolo trascinata per aria da code di aquilone, dove una forma terrestre, sfumando, trasmigra in nebulosa e galassia. Un corpo astrale, ma intriso ancora di ricordi sensitivi e talora sfiorato dalle felpate movenze di un’animalità aggraziata e feroce.

Paiono segnali di corpi divinizzati in stella; un alitare di chiome, piume, pelurie, refoli, come accadeva nella fantasia degli antichi. E nell’incernieramento immaginario della carne con una parvenza d’eterno, dei suoi echi col senza-tempo, viene spazializzato l’ossimoro, per dirlo con le parole dell’autrice, “fantapittorico” delle costellazioni dei leopardi”. A proposito del quale val la pena di osservare che già l’installazione dell’Orfeo di qualche anno fa, con la sua grande ala nera, calante ed infine adagiata al pavimento, disfaceva le antitesi collegando certi motivi della tenebra con gli umbratili diaframmi di un polittico di carte opalescenti. Univa in cerchio caduta e risalita. E lo si leggeva, questo legame sognato tra la medusea attrazione del profondo, tra il nero e la levità delle piume, su uno spartito posto al centro della composizione: era il tema dell’opera (forse il motivo principale), volto a mutare le materie in canto, le loro correnti selvatiche ed oscure in “volantes sirènes”.

L’artista, occorre insistere, non acceca totalmente l’evidenza corporea degli elementi. Ne conserva tattilità e cromie. In fondo cerca l’euritmia che presiede, pur nello svanimento e sfacelo dei fenomeni, all’ordine naturale. E la vuole viva, ancora respirante.

Abbandonandosi alle risorse della pittura, che tanto sono vicine alle promesse del mito, tenta di coglierla nell’attimo in cui appare. Non è una figura né un oggetto in particolare, ma lo splendore di cui una figura talvolta si avvolge e che essa sola può testimoniare.

Tremiti, motilità, ardori trasmessi alle materie sono le prove del cuore che il dipingere rende visibili. Viene da loro, solo da loro, il pregio (e il prezzo ) di una così intima passione di scavo.

Ebbene, ora, dopo le Erme e i successivi Avvistamenti, vien fatto di registrare uno scoppio di luce. Dopo l’attesa e il segmentato cammino sull’orlo della grotta, è arrivato qualcosa di simile ad un incendio del vedere. La forma ha cominciato a crepitare ed ardere, le opere si sono trasformate in doni dall’apparenza regale.

A ragione l’artista può chiamarli Tesori, essendo i ricordi, fissati nell’oro, del suo viaggio.

Quale oro? E’ la serie delle metafore solari composte con gli strumenti più semplici, con carte e vernici. Dal poco ( mediante un fervido procedimento tecnico e dalla prova del fuoco ) ha tratto una lussuosa sovrabbondanza. Le carte non sono più carte, ma trafori, squisiti lavori di oreficeria, ornamenti degni di Sherazade.

Guardandoli ho l’impressione di rivedere le maschere d’oro o gli scrigni di Micene. I gioielli barbarici di un altro tempo e di un altro spazio quando non era ancora diviso l’Oriente dall’Occidente. Fibule, nastri, misteriosi attrezzi.

Nell’empito della trasformazione Mariella Bettineschi sa spostare il presente, questo momento e questa carta, nel favoloso lontano. Lo sospende in un diverso che assomiglia all’arcaico. Ma non è il selvaggio ricavato dai consunti reperti museografici del sopravvissuto. E’ invece il “ qui ed ora “, cambiato di segno, che ha assunto la lucentezza di un eden ritrovato e fa balenare il fondo circolarmente ritornante delle immagini che assediano il desiderio.

Se ha la sembianza dell’antico, ciò accade perché è già una memoria per il futuro. E, quel che più importa, stringe ancora una volta in unico nodo impulsività e raffinatezza, matericità e stilizzazione, giacché non si potrebbe immaginare nulla di più fragilmente prezioso di queste lamine dalle quali trasudano irruenti configurazioni.

Nella ragnatela di chimere che anche il fuoco ha contribuito a modellare, imprimendovi concrezioni di smalti, affiora sempre l’ossimoro, il sogno del selvaggio coltivato nell’alchimia pittorica.

Grazie ad un simile vincolo si allarga il ventaglio dei sensi: sono animali e aquiloni, ali, maschere e paesaggi, montagne ed addobbi. Ma al di sopra si eleva sempre quella figuratività vibratile che l’artista ha inseguito ( da cui più esattamente si è lasciata accerchiare ) nell’ascolto del suo originario: le fibre e i grovigli dei paesi in ombra.

Perciò è vero quel che mi dice: “ oggi capisco di aver sempre dipinto, senza saperlo, dei paesaggi. Nient’altro che paesaggi “.

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