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Francesca Pasini, Un arcipelago mobile

Mariella Bettineschi, Corraini Editore, Mantova, 2013

Si può riunire la vita di un’artista in un libro? No. Si può scegliere però un tragitto, programmare un viaggio tra le opere, lasciando emergere somiglianze e differenze.
Mariella Bettineschi ha creato un arcipelago raggiungibile da strade diverse e formato da territori diversi. A tratti si è avvolti da un cielo comune, ma la chiave che contraddistingue il suo lavoro è la ricerca di nuove forme, nuove tecniche, nuove sensibilità. Siamo di fronte ad una personalità eclettica per necessità, come lei afferma: ” a un certo punto sento il bisogno di cambiare, di tentare altre strade, è una specie di richiamo” . Eclettismo e persistenza progressiva del linguaggio sono due facce della stessa medaglia. Non c’è invenzione che non produca una variante, ma la tentazione di abbandonare le proprie figure, o il sistema di rappresentarle e di lasciarsi catturare dalla mobilità delle intuizioni, è uno dei cardini della sorpresa che ognuno si aspetta dall’arte.

Ovviamente c’è il rischio di non venire abbinati a un “motivo firma”, un aspetto che negli ultimi decenni si è articolato in vari modi per creare un aggiornamento del linguaggio che, pur restando nel proprio alveo, dia conto nella maggior diversità dei segni che vanno a comporre “il motivo firma”.
Mariella Bettineschi ha scelto una via divergente, ha deciso di lasciarsi contaminare dalla passione del tempo in atto ed è passata da esperienze di manualità, come il disegno, il ricamo, l’intaglio, la pittura, a fotografie, installazioni, manipolazioni di immagini. Così ha creato questo mobile arcipelago, dove l’orientamento non è lineare, ma intuibile.

Per questo libro abbiamo fatto insieme un viaggio tra le sue innumerevoli opere, scegliendo una selezione senza predisporre una bussola. Alla fine però è risultato chiaro che la via migliore era quella di stare ancorate agli anni di creazione e credo emerga abbastanza chiaramente che, nonostante i suoi continui dirottamenti, persiste un legame sotterraneo, ma visibile, tra una pratica manuale e una struttura immaginativa che si fonda sulla smaterializzazione prodotta dalla luce come appare esplicito nel corpus di fotografie del 2010 – 2011 dove l’immagine stampata è complementare a uno spazio bianco che fa parte della stessa lastra fotografica. Una volta stabilito che il libro sarebbe proceduto seguendo le tappe della sua vita, è apparso non solo un legame tra le varie stagioni della sua creazione, ma anche una suspense narrativa che ci fa andare da un luogo all’altro di questo arcipelago, restituendoci un clima biografico e una dimensione emozionale. 

Da una pagina all’altra ogni opera indica un tempo, un luogo, una ricerca che poi vira in altro e così, di pagina in pagina appare il percorso. Il fatto che non sia definito una volta per tutte è da un lato il “motivo firma” dell’opera di Mariella, dall’altro è il quid che crea suspense, nel senso che man mano l’occhio si abitua a cambiamenti e insistenze. Ogni gruppo di figure può funzionare come dei personaggi che raccontano la loro storia, indicano temperature e desideri, ma anche la loro capacità di eclissarsi per lasciar posto all’immagine che verrà.

Si inizia con le impalpabili pitture- disegni trascritti in oro su cuscinetti di organza (Morbidi, 1980) animali, volti, scritte si adagiano su questi spazi tattili, intimi, fragili. Hanno il sapore delle cose antiche, impreviste, che emergono dai cassetti, ma anche il guizzo della sensibilità, della tenerezza, la quale, in genere, crea le proprie figure tra le pieghe dell’esistenza. Non si impone a prima vista, si associa alla dimensione impalpabile delle percezioni ed è per questo che spesso la si riconosce in piccole porzioni dell’esperienza, anche quando essa ci investe con grandiosità.

Chi non ha conservato un indumento, un oggetto, un appunto scritto di sbieco, che evocava un’emozione d’amore, di dolore, di fascino intellettuale o di un grande evento politico? Così agiscono anche i Piumari (1981) dove solo dei punti di colore oro rappreso costruiscono geometrie sospese dalle piume che si rapprendono all’interno del guscio d’organza. E un’altra variante avviene nelle Carte Ermetiche(1984) dove tutto è raccontato nei bordi, dove escrescenze di materie appena sfiorate dal colore si condensano in un bianco sporco, come a volte assume la neve quando si restringe ai bordi delle strade. Altrove sono resti di pietre, gesso, che si sostituiscono alla matita e disegnano sulla carta figure aperte, immaginari passaggi o costruzioni, Le carte dell’isola, (1984).

Il discorso prosegue con naturalezza, si capiscono le alleanze e le divergenze, ma poi c’è uno stacco che può essere il simbolo della passione rabdomantica di Mariella. Un libro bianco, aperto, appoggiato su un leggio da musica, campeggia su una distesa d’acqua. Orfeo: è una foto del 1981 che racconta un’installazione più articolata, ma che prende un valore icastico e diventa un’opera autonoma.
L’ abbiamo scelta per la copertina sia per il suo valore simbolico: Orfeo, un libro bianco su cui scrivere la storia, sia per il sentimento della luce e dell’infinito che acqua, libro, musica portano con sè. Tutto il lavoro di Mariella tenta la scalata al cielo per intercettare quel tratto di infinito che il linguaggio visivo può trattenere. In questa direzione Mariella ha usato la fotografia fatta da lei o rubata in internet. Luce, luce, ancora luce. Come vedremo nelle sequenze Incendiati del 1996, Alla velocità della luce e La vestizione della sposa del 1999.

Si potrebbe chiudere qui.

Ma dobbiamo ritornare indietro e rientrare nella suspense prima di intuire l’annuncio di Orfeo.
Attraversiamo dei paesaggi oscuri, enigmatici, dove vetro, carta, pigmento, sassi, legno evocano mondi notturni dai contorni fluttuanti, rischiarati a tratti, forse percorribili, ma non realmente abitabili (Erma, 1983). E cosa può esserci dietro quel buio baluginante? I Tesori (1985) sono carte fragili come quelle da lucido, che normalmente vengono usate per progettare architetture, trattate con catramina, acquaragia, polvere d’oro e poi messe alla prova del fuoco. Assumono l’aspetto di una materia arcaica, non definibile, che ci fa venire in mente la “lamina di Agilulfo”, che segna la svolta nella storia dell’arte dell’Alto Medioevo introducendo il concetto di un’arte nomade, che seguiva le scorribande e le invasioni dei popoli cosiddetti barbari, perchè venivano dai confini dell’ex impero Romano, e barbaro in greco antico, significa straniero.

I Tesori di Mariella Bettineschi spingono l’immaginazione verso un tempo originario che tutti abbiamo mitizzato come l’intersezione dalla quale nascono le figure, ma che lei invece ricava dalla carta, ovvero il simbolo universale del disegno e della scrittura, quindi della necessità di raccontare storie. E di pagina in pagina i Tesori si stemperano, la materia si distende e tra il catrame e i pigmenti appaiono skyline di montagne, bagliori di fuochi, stelle che bucano il cielo buio fitto, colate di ghiacci che scontornano le vette. Così si chiude l’anno 1986 con le opere Verso la costellazione dei leopardi.

Nel 1987 le immagini alternano con più decisione differenze e citazioni di maestri amati: c’è un sentimento per Alberto Burri in Artigli (1987), dove delle tavole rivestite di catramina sono assemblate insieme, lasciando in evidenza i tagli delle superfici, mentre degli aghi da telaio le trafiggono. Nei monocromi Piano di fuga (1989), invece, riconosciamo una dedica a Lucio Fontana, ai suoi teatrini. Si passa poi, a una passione più astratta, più rigida, nelle composizioni geometriche in bianco e nero del 1990 o nelle “sculture bidimensionali” Rifugio impossibile, dove il quadro genera al proprio interno una base come succede nei bassorilievi, o in Sequenza d’inganno, dove legno sagomato, dipinto in acrilico giallo, crea delle semicolonne.

Una rosa dei venti d’acciaio campeggia su uno stelo di due metri ed è fotografata in riva al mare: si intitola Angolo di elevazione (1990). Ci avverte che qualcosa sta per succedere e, all’inizio, il cambiamento sembra contiguo, Dondoli è una piccola popolazione di sculture di marmo che hanno la figura primaria del dondolo, ma girando pagina tutto cambia. Appare una lamina di ottone sulla quale è intagliata la figura di un lucente vestito, La vestizione dell’angelo (1996). Il procedimento è specularmente inverso ai quadri bidimensionali, qui l’ottone fa da sfondo e allo stesso tempo dà corpo al vestito, l’intaglio si autonomizza e unisce fondo e figura in un tutto tondo. E poi il vestito si disaggrega, diventa un modello tagliato su superfici di vetro, accostate le une alle altre come in una danza, prima di assumere la figura dell’abito con le pieghe, il corpetto, lo scollo. Ogni parte è a sè, ma distribuita in sequenza come se da questa disarticolazione apparisse la scia luminosa che sempre attribuiamo agli angeli. E da qui inizia la famiglia di vestiti realizzati in materiali vari: corpi vivi, indefiniti, bellezza e geometria. Sono segni sintetici, ma molto espressivi. Il vestito è una forma che indossiamo, varia di continuo, anche in senso metaforico. In queste figure c’è una tenerezza particolare, riguarda l’aspirazione alla bellezza e in queste sagome di vestiti geometrici, puri, riconosciamo una compiutezza e un appaesamento che è appunto quello di una linea, un oggetto, un luogo, una figura quotidiana che ci trasporta nell’immaginario.

Una cosa analoga avviene nelle immagini stampate su acetato o su plexiglas, dove irriconoscibili vasi o lampadari fanno tutt’uno con la luce che emanano. Evocano l’intimità e la festa di una casa, dove gli abitanti stessi sono inglobati nella luce. A volte il cinema ci fa provare quest’emozione, penso a Hitchcock, perchè l’enigma aleggia tra queste visioni (Sovraesposti 1997).

E così arriviamo a quelle sequenze di luce che prima ho descritto seguendo l’intuizione che avevo letto nell’immagine del libro bianco sul leggio in mezzo al mare (Orfeo), Incendiati , Apparizioni, Alla velocità della luce, sono frammenti istantanei che mettono a fuoco la luce nella sua imprendibilità, a volte lasciano scie che sembrano quelle di un pennello, a volte fissano l’attimo in cui prendono forma le scintille dei fuochi artificiali, o il tremolio della fiamma delle candele, ma anche i colpi di luce informe e umida che ci appaiono in una strada di notte, mentre si guida.
Ma c’è anche il prodigio di un doppio anello incandescente che copre e illumina una palma in riva all’acqua. Mariella lo ha visto e poi lo ha creato con la tecnica, è sfuocato e impreciso, come fosse fatto a mano libera e diventa simbolo del desiderio di luce che attraversa l’arte e la vita.

Un altro stacco.

La luce non proviene più da fotografie ma da sculture di plexiglas sulle quali sono stati stampati dei disegni geometrici. Sono dei tondi che si rincorrono in una circonferenza fissata sul muro. Le ombre e i disegni creano un mondo tridimensionale dove questa geometria immaginaria proietta se stessa, creando un circuito che può metaforicamente ricordare i meandri del cervello, che presiedono alle immagini, pensieri, emozioni, movimenti. Pur essendo un elisse chiuso, non ha rigidità perchè la trasparenza del plexiglas e la mobilità dei disegni provocano continue varianti in base al punto di vista. Si intitola La costellazione del disegno interno, il continuo intreccio tra la forma circolare dei dischi di plexiglas e dei disegni spinge a immaginare mondi che stanno dentro la mente, ma che con la mente vediamo muoversi nello spazio (2003).

Il viaggio diventa Voyager (2005), il titolo ci trasporta in quello che per eccellenza ha segnato il secolo scorso, ovvero l’allunaggio, e che Mariella traduce in un’ampia sequenza di segni, figure, come se la scienza fosse troppo grande e avesse bisogno di più spazi per essere avvicinata. Altri dischi (questa volta colorati) invadono la parete, sono attaccati in modo ortogonale, come se stessero per staccarsi dal muro e ci parlano dell’infinito, della sua inesauribile percezione e anche della necessità di interpretare l’enigma del globo in cui uomini, donne, stelle e satelliti vivono e guardano (La teoria delle sfere, 2003, pagine 142, 144, 146). Uno scoppio di luce deflagra direttamente dentro un’architettura, tutto sembra correre, ma non si capisce dove (Voyager2006, pagina 155).

Si apre il capitolo de L’era successiva (2008 – 2013) . E’ una lunga affabulazione. Inizia con la foto della grande macchina-campana del propulsore SSME ( Space Shuttle Main Enginel ) della Nasa: la foto è rovesciata quasi a rappresentare il “cielo” che sovrasta il quotidiano, ormai più legato alla tecnologia che alle stelle. E da qui si passa alle fotografie raddoppiate, dove metà della lastra di vetro è bianca, come se fosse impossibile chiudere i confini e quindi bisogna prevedere uno spazio in più per l’impressione di un’immagine ancora non visibile. Immagini della guerra, aerei minacciosi ripresi rovesciati, rampe di missili, paesaggi conosciuti, ma non identificabili, boschi soffusi di nebbia, stagni… e in tutti affiorano o si nascondono dei dischi di luce che alludono alla metafisica e all’ipotesi di mondi non ancora individuati. Ma in queste figure si inseriscono anche celebri ritratti della storia dell’arte, dove gli occhi sono stati duplicati: quattro occhi che dialogano con lo spazio bianco, sottostante, ci avvertono di un più di luce di cui dotarci per andare incontro al futuro, ma anche per riportare il passato a un presente che vive non solo di certezze, ma di uno spazio bianco per continuare a scrivere e disegnare. Ritorna il libro di Orfeo.

La tensione a inventare il sistema per fotografare il futuro appare negli ultimi paesaggi invasi da luci improvvise, senza un’origine predeterminata. Così Mariella modifica il presente di quello che vede usando la tecnica come un pennello, così ritorna la sua attrazione per la manualità che avevamo visto all’inizio. E alla fine il capitolo si chiude con un’immagine di un cono di luce su un fondo blu- nero – notte che fa da pendant all’immagine dello shuttle nucleare.

Il libro è finito? No.

Il Progetto per laboratorio tessile , 1995, (pagina 190) apre la sezione dei disegni che hanno accompagnato tutta la vita e l’opera di Mariella. Si vede una mano che tiene sospesa un’asta da cui pendono oggetti nebulosi, come non pensare ai Piumari? O agli spazi in cui Mariella ha navigato per cogliere luci e figure? Lasciar aleggiare ciò che si vede corrisponde in fin dei conti a quella linea ( asta) che attraversa i territori dell’arcipelago. Mentre la mano è l’altra polarità che riguarda il lavoro di Mariella.

Gli innumerevoli disegni, dai quali abbiamo tratto questa sezione conclusiva, ci parlano con passione della sua mai sopita aspirazione eclettica. Troviamo tanti spunti delle immagini che abbiamo visto.
La suspense e il viaggio continuano, tra la carta si libera la fisicità che spesso non si accontenta del carboncino, ma ingloba pietre, materiali vari, anonimi e quotidiani. A volte i disegni prendono corpo attraverso l’intaglio di libri, a volte raccontano episodi della sua vita affettiva. Insomma abitano nella variegata flora e fauna che costituisce l’arcipelago in cui cresce l’eclettica attitudine di Mariella Bettineschi.

Tutti sono pervasi da un’indipendenza che è il punto nevralgico di ogni opera d’arte. Forse occorrerebbe un altro libro per navigare tra le terre e il cielo dell’arcipelago, dove i disegni da un lato fanno parte dell’humus della “terra”, dall’altro sono “i frutti” di una vegetazione fatta di visioni, appunti, note biografiche, guizzi di intuizione.

Ecco la mano di Mariella.

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