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Ilaria Bignotti, L'era successiva

2017

La complessità dell’indagine artistica di Mariella Bettineschi, la diramazione e diversificazione dei risultati visuali che ne derivano, l’interdisciplinarietà e il costante passaggio da un medium all’altro, senza soluzione di continuità ma con eclettica rimescolanza, sono aspetti ben noti sia al mondo accademico e istituzionale, che a quello del mercato dell’arte, determinandone da un lato una corposa lettura da parte di studiosi afferenti a diverse posizioni critiche, d’altro canto un collezionismo indipendente dagli schemi, attento e raffinato.

I rapidi passaggi creativi dell’artista, inquieti – e debordanti, a chi vi si approcci con una visione frettolosa – vedono un archivio ricolmo di morbidi oggetti che recano scritte dorate, perline e baluginii, appuntati da una gazza ladra gelosa del segreto che vi si nasconde; carte e mappe corrose e robuste, coperte di catramina, dorature, ampi cerchi e sottili nomi di geografie d’altri tempi, negli anni ’80; costellazioni immaginarie, fuochi fatui e incendi nella notte, degni dei migliori panorami immaginifici di fine ‘800 e dei più acidi cieli postmoderni, tra gli anni ’80 e 2000; durissime sculture formate da lastre chiuse, confini insolcabili, o ancora rattoppati con fermezza, sadici passaggi ambientali e sito-specifici, limiti spezzati; e tutto quel lavoro sull’obliquo e sull’inganno della pura forma, a scardinare istanze neo-concrete e post-concettuali, negli anni ’90. Un archivio dove ampio spazio è riservato alla parola, al racconto, alla narrazione memoriale e intima; un archivio di donne, nude, vestite, angeli, bambine, sfumate da un occhio immemore; e attorno a tutto questo, una rigogliosa efflorescenza che si rifiuta di poter divenire antologia, nel vero senso della parola, perché tutta necessaria, di disegni, schizzi, progetti di grandi installazioni e sculture che nel corso dei decenni l’artista ha creato, fatti di fiori di carta, lettere protette, mani che disegnano mandala, tripudi fitomorfi, magici bucrani del nuovo millennio, ghepardi e liocorni fuggiti dalle manifatture di arazzi delle Fiandre; e ancora, bianchi libri aperti immersi nell’acqua, vetri e specchi, dondoli bianchi e carri celesti, mosaici e proiezioni luminose.

Un archivio al lavoro. Un lavorare continuo, perseverante, in costante trasformazione.

Il rischio affabulatorio, di fronte all’opera di Mariella Bettineschi, è sempre in agguato; lo teniamo sotto controllo imponendoci una griglia di lettura che per scelta abbandoni il tracciato del tempo nella sua concatenazione di date e dati, e protenda all’individuazione dei temi visuali e semantici – iconografici e iconologici – con il buon supporto della semiotica, della antropologia simmetrica, e prima ancora del “metodo Warburg”, con la sua biblioteca anti-alfabetica e anti-cronologica, la sua Mnemosyne-atlante di immagini dove una giocatrice di golf anni ’20 rievoca la ninfa di età ellenistica, per quelle Pathosformeln che, comuni in ogni epoca, muovono i corpi al vento del tempo.

Attimi e secoli che in qualche modo continuano a scorrere nell’opera di Mariella Bettineschi, artista colta e intuitiva assieme, atemporale eppure sempre presente, con lo sguardo rivolto altrove.

Erma bifronte di un’epoca successiva. Forse non a caso così si titolano le sue prime “scatole magiche”, contenitori di un sapere iniziatico, piccoli paesaggi per eremiti ed ermetici del visivo.

Dopo una necessaria sbronza di immagini, quale abitualmente e con un certo sadismo Mariella Bettineschi impone a chi si approcci al suo mondo, il recupero di una lucida organizzazione dei fatti deve quindi partire da una scelta di metodo: come si è scritto poc’anzi, non si seguirà un andamento cronologico – come del resto è stato invece già fatto nella sua ultima monografia, datata 2013, a firma di Francesca Pasini[1] – ma un procedere tematico. Il tempo, i tempi del lavoro di Mariella si intersecheranno l’un l’altro, in una rispondenza iconica e semantica, attraverso le îles flottants del suo arcipelago, che puntualmente ancora Pasini ha definito: mobile[2].

 

  1. Ricognizione.

Prima di inquadrare gli approdi tematici verso i quali dirigere la rotta, va chiarito che la bussola sarà offerta dal suo ultimo ciclo di lavori, avviato nel 2008 e ancora in fase di ideazione e produzione – si potrebbe azzardare, il ciclo più esteso sinora – dal titolo L’era successiva[3].

Lavori ai quali, attraverso i vari nuclei tematici analizzati, sarà dedicata la centrale disamina critica di questo scritto.

L’era successiva è formata interamente da opere bidimensionali intermediali, ottenute attraverso la sovrapposizione e la mescolanza di fotografia e pittura digitale, stampa su plexiglass e specchio, operazioni di collage, blurring (sfocatura), fading (scolorimento) e blank (vuoto, bianco come azzeramento visuale).

Il risultato visuale si diversifica in alcune tipologie iconiche e narrative: un primo corpus è formato da immagini di missili, razzi, shuttle, aerei colti nel loro decollo, lancio, o volo, alla presenza o meno del pubblico, in atmosfere rese surreali da operazioni di blank, sfocatura, alterazioni cromatiche; un secondo da paesaggi industriali che inquadrano aree di raccordo viario di estesa dimensione, ponti e autostrade, con sovrapposizioni di collage digitali e altre operazioni di elaborazione cromatica; un terzo gruppo è formato da vedute di paesaggi naturali, in prevalenza boschi e sottoboschi, laghi montani e stagnetti memori di giardini e ninfee impressionisti, sia virati in bianco e nero che elaborati cromaticamente con particolari filtri e velature, sui quali sono poi operati interventi di fading, blurring cromatico e collage digitali con l’inserzione di forme ellittiche opalescenti; seguono le vedute di biblioteche e luoghi di deposito del sapere, italiane e internazionali, lavorati digitalmente e virati nel bianco e nero, specchiati in supporti riflettenti e manipolati finemente, a creare effetti di sfondamento e profondità spaziali, centralmente sfocati e annebbiati da macchie lattiginose e diafane; infine, una serie raccoglie icone femminili selezionate dai masterpieces pittorici di epoca rinascimentale, manierista e barocca, rielaborate digitalmente e virate in bianco e nero, fisicamente trasformate con particolari azioni di blank, taglio e sdoppiamento e con una peculiare stampa digitale che rende la superficie come se fosse di porcellana dipinta a mano, conferendole una deliziosa e struggente patina del tempo.

In questo inventario iconografico si possono distinguere: una campionatura della produzione culturale dell’uomo, della storia dell’arte e del sapere occidentali (le donne, le biblioteche); una selezione di paesaggi naturali privi di attacchi antropici; una raccolta di immagini della tecnologia e dei progressi aeronautici e industriali del XXI secolo. In tutti e tre i campioni visuali, l’artista interviene con operazioni di aggressione e mutazione iconiche, attraverso la pittura e il collage digitali, rendendo ciascuna immagine a-storica e perturbante, estirpandola da un passato lontano e fossilizzato, o da un futuro immaginifico e decantato, e mettendola sul tavolo anatomico del potenziale presente.

I temi portanti che emergono da questi campioni sono la narrazione, la natura, il femminino, lo sguardo, il diafano e la luce. In ciascun tema, il doppio come antitesi, sdoppiamento e dualismo costituisce un elemento portante e determinante il risultato visuale.

 

  1. Chargé di passé et gros de l’avenir.

Ogni opera de L’era successiva è fenomeno – un venire al mondo, un diventare immagine – di un percorso che unisce un passato millenario e un tempo futuro, emergendo da un tempo-spazio interiore e inconscio, che l’artista, maieuticamente, consegna al riguardante.

L’era successiva è una chiamata alle armi dell’immaginazione, una richiesta di responsabilità creativa, uno sguardo auto-generante icone, una scelta etica che si traduce in estetica possibilità. Da Leibniz[4] a Cassirer della Filosofia delle forme simboliche[5] e del Saggio sull’uomo[6], per approdare a certe letture di antropologia simmetrica offerte dalla scuola francese di Michel Serres e di Bruno Latour, possiamo individuare una traccia ideale, una specie di fiume carsico che sotto-scorre all’intera opera di Mariella e emerge, dirompente, nel suo ciclo più recente e frutto di una maturità artistica quarantennale, L’era successiva.

L’uomo “non è mai situato in un punto isolato del tempo. Nella sua esistenza le tre forme del tempo – il passato, il presente e il futuro – formano un tutto i cui elementi non possono venire separati”[7]. A sostegno di questa riflessione, Cassirer cita Leibniz quando dichiara l’impossibilità di “descrivere lo stato che un organismo presenta in un dato momento senza considerare uno stato futuro rispetto al quale esso costituisce semplicemente un punto di passaggio”[8].

Se sostituiamo i concetti di stato e di organismo con quelli di iconografia e opera, ritroviamo eco delle parole di Mariella Bettineschi, che consapevolmente ci racconta quale sia stato il fatto – altrettanto epocale – detonatore di questa ricerca: “lavoro a L’era successiva dal 2008, inizio della crisi economica, una crisi epocale che sta sconvolgendo tutti i parametri, i metri di giudizio, i termini di paragone, segnando un profondo e definitivo cambiamento rispetto al passato. Nascono immagini di boschi, di stagni, paesaggi resi evanescenti da soffi di vuoto o abitati da presenze misteriose e inquietanti; preziose biblioteche coinvolte da una dilatazione gassosa che allaga e vanifica i confini architettonici. Una metafora evidente del rischio della loro distruzione. Accanto a queste opere, come possibile protezione verso la transizione nell’era successiva, pongo ritratti femminili, grandi icone della storia dell’arte, a cui raddoppio lo sguardo, per segnalare che alle donne, capaci di vedere lontano, affido il passaggio difficile che ci aspetta”[9].

La scelta di Mariella Bettineschi non rimarca una posizione passatista, né enuncia certezze sulle sorti magnifiche e progressive del futuro occidentale: sperimenta una con-fusione di ere potenziali, l’una nell’altra compenetrandosi, in una eclettica ed empatica mescolanza di rituale e racconto, visione e veduta, perdizione ed estasi, con uno sguardo onnivoro e metabolico, capace di abbandonarsi a una brezza millenaria o di frugare rapido nei cloud digitali del XXI secolo.

 

  1. Dal metodo non nasce niente.

Se questo è l’approccio teorico, Mariella Bettineschi deve, necessariamente, rifiutare un metodo che parta dal progetto, si sviluppi nella sua possibile traduzione in procedimento, e termini in una serie di immagini-prodotti “finiti”.

L’era successiva non nasce e non termina: muta, mutevole e mutuando dalle “ere” precedenti, ovvero gli altri cicli di opere venuti prima e che, a loro volta, necessariamente già la contenevano e “si” contenevano l’un l’altro. Come L’era successiva oggi, erano gros, come ci suggerisce il filosofo, gravidi, del futuro. In questa continua rimescolanza e osmosi di epoche creative, in questo crepaccio profondo dove le certezze programmatiche crollano in un gorgo di infinite possibilità intuitive e randomiche, Mariella Bettineschi si muove con la cosciente estasi del rabdomante: cerca quel piccolo corso d’acqua che scorre al di sotto della crosta del metodo, fino a quando decide di far scaturire il flusso lavico della possibile icona. Mercuriale e mobile, l’artista incarna perfettamente quell’immagine di Hermes, dio greco della comunicazione, del contatto tra divino e umano, del messaggio e dell’inganno, che Michel Serres, nel suo recente scritto Il mancino zoppo, edito nel 2016[10], definisce quale attore della terza rivoluzione, mancino zoppo perché capace di deviare dalla via già conosciuta e oramai sterile del nostro secolo, con le sue regole e i suoi limiti, per chiamarlo ad essere fautore di una rivoluzione dolce, mutevole come le possibilità offerte da questa grande movimentazione di virtuale e realtà aumentata, tecnologie ipertrofiche, conflitti e ibridismi di popoli e culture che oggi ha l’umanità e che deve saper riscoprire per salvarsi.
Serres supera la visione dualistica occidentale che dall’Illuminismo in avanti è stata stabilita tra mondo delle scienze e mondo delle culture, vedendo anzi proprio in questa separazione l’origine dell’attuale crisi dell’umanità.

Bruno Latour, suo allievo, ci dice che sono allora superati anche i concetti di Moderno, così come quello di Anti-Moderno spesso usato dagli occidentali per designare le altre culture, fin dall’Umanesimo giudicate “colpevoli” di non distinguere tra trascendente e immanente, tra mito fatale e verifica scientifica, soprannaturale e naturale, in nome di una posizione Non-Moderna, ovvero di un approccio di antropologia simmetrica dove si rimescolano la fede con la scienza, il feticcio con il concetto, il fato con la previsione, in una rete di relazioni nomadiche e fertili che liberamente trascendono dai confini che abbiamo posto nel corso della prima e seconda rivoluzione, umanistica e industriale[11]. La nuova educazione dell’uomo occidentale, ipertecnologico, stressato, depresso e scisso tra desideri, ansie e paure, deve nutrirsi di invenzione, fantasia, libertà. Anche, soprattutto, deve saper errare e deviare dalla meta prefissa. Il tanto agognato metodo non serve, pensare vuol dire inventare, e inventare è trovare altre rotte, nel farsi del viaggio e della esperienza, camminando, nuotando, navigando, incespicando, cavalcando senza mappa: o con in mano una Carta ermetica, suggerirebbe Mariella Bettineschi.

La quale, da L’era successiva, per tornare indietro nei decenni, intesse, cuce, assembla, destruttura, rimedia e verifica la tenuta di materiali trovati, elaborati, raffinati, naturali, digitali, antichi, di riuso, di recupero, mescolandovi immagini e racconti di una storia come fluida osmosi tra passato, presente, futuro, incespicando sulle proprie radici culturali e anche esistenziali, per mettere a prova la propria visione attraverso l’ipotesi dell’errore, la mescolanza tra esattezza del procedimento e potenzialità del processo creativo, accettando di verificare anche il fallimento del metodo nello stupito farsi dell’opera. “Ho provato molte volte a darmi un metodo, a stabilire un punto di partenza, un procedere ordinato, un ‘prima faccio questo poi faccio quello’. Il mio lavoro, così, moriva. Inesorabilmente moriva. Non ho un metodo, ma lavoro per accerchiamento. Dispongo trappole lungo il percorso, che pian piano stanano l’immagine, la costringono a venire allo scoperto. Da qui nascono i lavori, che rimangono anche per anni nascosti, ma sono lì a chiamarmi, come un bagliore, una idea, una piccola cosa. Tutto prima o poi emerge e viene alla luce, prende forma, perché incalzato dalla necessità, da queste trappole, non so nemmeno io come” [12].

Gli artisti sanno sempre cosa accade, prima ancora che “ciò” si palesi, fenomeno, fatto che viene alla luce.

 

  1. Montaggio e narrazione.

Suspense, decostruzione, ellisse narrativa e cancellazione iconica, ricomposizione del perduto tutto originario, collage di possibili approdi di senso.

La grammatica compositiva di Mariella Bettineschi si colloca saldamente nella pratica del montaggio: un montaggio che nel suo essere connotativo, sperimentale, fatto di immagini trovate – scoperte, riemerse, riconosciute nel farsi della ricerca e della vita dell’artista – è inteso come metodo di estrazione maieutica del profondo, e al contempo approccio conoscitivo e risultato visuale.

“Il fatto che non sia definito una volta per tutte è da un lato il ‘motivo firma’ dell’opera di Mariella, dall’altro è il quid che crea suspense, nel senso che man mano l’occhio si abitua a cambiamenti e insistenze. Ogni gruppo di figure può funzionare come dei personaggi che raccontano la loro storia, indicano temperature e desideri, ma anche la loro capacità di eclissarsi per lasciar posto all’immagine che verrà”[13].

Proprio ne L’era successiva questa processualità costante dell’immagine si fa esplicita dichiarazione di un anti-metodo da parte dell’artista stessa, la quale dichiara:

“Io vengo dalla pittura e dalla scultura e uso la fotografia, mia o presa da libri, come materiale. Manipolo, taglio, incollo, formo e deformo le immagini, come nella tecnica del collage, per riportarle alla pittura. Poi le stampo su vetro o plexiglass e così accentuo l’ambiguità della visione: l’occhio si perde fra l’immagine e il suo riflesso, moltiplicato dallo specchio retrostante”[14].

Nessun’altra indicazione: osserviamo.

Nella maggior parte dei casi, lo sdoppiamento di ciascuna opera associa e fa confliggere due campi visuali. Uno è solitamente un vuoto bianco, una frattura o mancanza iconica che ci chiede di completare il soggetto raffigurato nell’altro campo. Il quale contiene appunto l’immagine che spesso è icona, sineddoche, simbolo. Così è per la riproduzione di un razzo mentre sta prendendo il volo, in un incendio che arde il paesaggio circostante. Ne percepiamo il calore infernale. Ma l’immagine è capovolta e nel campo in basso un blank taglia il cielo plumbeo. Cosa succede dopo l’esplosione che precede il possibile volo?

Un’aquila altrove si libra a mezz’aria nel campo inferiore dell’opera. In quello superiore, il blank totale prende la forma di un immacolato cuscino da campo, un altro semi-nascosto da coperte lacere. Iconografia e iconologia: potere e miseria. A noi completare il racconto.

Le ellissi che campeggiano nelle chiazze acquoree de Le ere successive naturali, così mi piace chiamarle, sono dischi lunari, apparizioni di divinità pagane, presenze aliene?

La lentezza, non la fissità dell’immagine, pare essere una scelta di linguaggio dell’artista, che sfocando, dissolvendo, scolorendo o raddoppiando alcuni elementi narrativi e iconici, gioca allo slow motion emotivo con il riguardante.

In questo lento affiorare del senso profondo dell’immagine, c’è una certa vicinanza con il Bill Viola dei tardi anni Settanta, dalla Reflecting pool a Chott el-Djerid (A portrait in Light and Heat). Anche qui, le immagini emergono, sommergono, si annegano l’un l’altra, in un lento accadere che pare ripetere l’emersione dall’inconscio di una atavica conoscenza-esperienza. Non a caso, Viola ha poi fatto esplicito e largo uso dei canoni del pathos antico, mediato dai maestri del rinascimento, nei suoi video più celebri, da Masolino da Panicale a Charles Le Brun, da Leonardo Da Vinci al Pontormo.

Altrove, i boschi fitti de L’era successiva sono inondati da una lattiginosa presenza, che in parte dissolve l’immagine e consegna al riguardante un luogo neutro da riempire.

De imaginationis loco. Così si intitola uno dei primi lavori di Bettineschi, che inaugurano il decennio Ottanta: un’opera che in sé già anticipa, e supera, le disquisizioni tra concettuale e transavanguardia, recuperando la poetica dell’intervento semplice, minimo, della pura poesia approdata e intessuta nella materia, destinata ad aver tanto seguito in molti artisti negli anni ’90.

Un cuscino bianco, morbido: un blank dove poggiare la testa, in cerca di ristoro, illuminati dalla formula magica ed evocativa – dorata – scritta dall’artista-medium. L’opera è il luogo dove è possibile immaginare che “qualcosa” avvenga.

Da questa ai Racconti morbidi, che nello stesso 1980 prendono avvio, dove il filo narrativo è non più la parola, ma lo scovolino colorato e intrecciato, le perline, i fili sottili appuntati e ritorti ancora su oggetti imbottiti. Protesi esoteriche di un corpo femminile, verrebbe da pensare, lasciando per un attimo sospeso questo tema, che per prima Patrizia Serra seppe sottolineare, descrivendo un’altra serie, quella dei Piumari[15] immediatamente successivi, del 1981.

Familiari ai paesaggi diafani e ai cieli visitati da strani dischi lunari de L’era successiva, sono poi i Racconti ermetici ancora dei primi anni Ottanta, luoghi percorsi da tracce minute e minuziose, parti di una narrazione che procede per rimembranze e visioni, dove campeggiano segni ellittici in cielo e in terra, campiture terrose e bluastre che sono indicatori di una idea di paesaggio; e le Indagini sull’isola[16], carte bianche rugose e spesse, materiche, dove piccoli approdi tagliano e punteggiano i campi ancora vuoti, da scrivere con l’immaginazione.

Il montaggio qui è lasciato al riguardante, che nei grandi vuoti di queste ultime opere citate, ancora della prima metà degli anni Ottanta, è regista di un racconto in divenire, chiamato a colmarne ellissi narrative che poi ritroverà, decenni dopo, nei boschetti metafisici e nei cieli interstellari de L’era successiva.

 

  1. Les regards perdus.

Lo sguardo, inteso come immediata percezione d’un bagliore di racconto, o come lento scrutare l’orizzonte del possibile futuro; lo sguardo tattile che sente le atmosfere brucianti di uno shuttle in partenza, lo sguardo che odora la bruma di un bosco e la nostalgia del tempo, accumulato nelle pagine dei libri dormienti in una vecchia biblioteca; lo sguardo che carezza la levigatezza di porcellana di una dama d’altri tempi.

In ogni opera di Mariella Bettineschi, lo sguardo è soggetto attivante e interrogante l’opera, e al contempo è l’opera stessa che guarda chi la interroga e perscruta, in un andirivieni che porta alla vertigine visiva, allo sdoppiamento e alla sfocatura percettive: benedetti errori di una fatale illuminazione.

Sinora nessuno si è arrischiato a descrivere gli occhi delle donne de L’era successiva. Secanti la nostra curiosità, essi stessi sono tagliati, spietatamente, e fatti doppi, dall’artista, che crea così mostri – alla latina, mostri meravigliosi, monstra – di bellezza femminile.

In effetti, a ben guardarli, questi occhi medusei fanno la stessa, inquietante impressione che per Edipo potevano avere quelli della Sfinge, mentre attendeva il verdetto finale al suo indovinello risolto; disturbano e morbosamente attraggono, come la rasoiata di Un chien andalou, non a caso citatomi dall’artista quale refrain nella gestazione de L’era successiva (immagine che, ci piace pensare, dopo essere stata da lei stessa “accerchiata” e intrappolata, abbia potuto e saputo riattivare nelle sue iconografie femminili).

Sono occhi doppi: per ogni donna, quattro pupille, quattro iridi, quattro palpebre, quattro arcate di ciglia e sopracciglia. Sono occhi neri, fieri, senza tentennamenti. Ciascuna pupilla illuminata da una piccola, ferma luce bianca. Un punctum abbacinante. Un bagliore che ci chiama a sé ipnotico, come le perline, le gocce dorate, i piccoli increspamenti, le emergenze traslucide e brillanti di tutte le opere di Mariella Bettineschi. Punti di luce che altrove, in altri cicli di opere, divampano in grovigli elettrici, fuochi indomabili, accecamenti visuali.

La Dama con l’Ermellino guarda due volte altrove, nella sua imperturbabile dignità; Giuditta raddoppia la sua concentrazione nel gesto di fiera macelleria, e le quattro luci nelle pupille sono fari puntati sulla chirurgica scelta della salvazione attraverso il massacro; Lucrezia Panciatichi di Bronzino ci congela in uno sguardo che ipnotico a lei chiama, nel mistero lunare di un amore eterno, che la avvolge e protegge; la consapevolezza del fascino di Fornarina si raddoppia nel suo lo sguardo, e quella perla che le appunta la nuca, nella discriminatura dei capelli neri a sinistra, sfuma di fronte alla luce dei suoi occhi; tutti i segreti di Violante, ritratta sotto altre vesti e nomi da Tiziano, sono condensati lì, nel fulcro delle sue quattro pupille; e la simbologia manierista della reggia di Fontainbleau è rafforzata dagli otto occhi di Gabrielle d’Estrées e di una delle sue sorelle, immortalate nel gesto che le lega, dichiarando la prima futura sposa del re.

Tutto il potere di questi occhi, di questo baluginare di sguardi seviziati per esser doppi, protesi e deittici nei confronti del riguardante, è reso ancor più esplicito dalla modalità di dipingere digitalmente l’ambiente nel quale le donne sono collocate. I ritratti, che certo restano fermamente legati alle icone dei capolavori d’origine, hanno subito un doppio processo: da un lato, i corpi e i volti sono affogati in un nero che dilava nell’ombra, emergendo così con una violenza e una solitudine di inquietante drammaticità. L’azzeramento del contesto circostante, se non fosse per qualche dettaglio narrativo e simbolico – la falce di luna nella Lucrezia del Bronzino, una libera inserzione di Bettineschi, la sommità delle fronde nella Fornarina e l’accenno architettonico ne La Bella di Palma Il Vecchio, queste ultime due annotazioni paesistiche invece preesistenti nei dipinti originari – è ulteriormente esasperato dal campo sottostante in cui l’opera è divisa, un blank. Netto e perentorio come i bagliori degli sguardi delle donne. Il prevalere della scala dei grigi e del nero che si addensa attorno alle presenze femminili, nel piano superiore dell’immagine, e il bianco abbacinante che si sostituisce al resto del corpo e dell’ambiente nel piano sottostante, corrispondono alla nera iride e alla pupilla pervasa di luce dello sguardo. Come a dire, chi vi guarda non solo sono loro, le protagoniste del vostro sguardo. Chi vi guarda è l’opera. Chi vi guarda sono io: l’artista. Vi chiedo, a mia volta, di guardare in noi, di guardare in voi. Di tendere la mano. Di salvarci, abitanti di un’era da cui riemergere, visionari e mercuriali, nella pienezza del nostro poter essere uomini.

Ve lo chiedo, sembra dirci Mariella Bettineschi, proprio con gli sguardi di donne rimaste impigliate in un quadro, nel loro essere muse, amanti, concubine, mogli. Mai riconosciute protagoniste.

Nel 2001, visitando XLIX la Biennale Internazionale d’Arte di Venezia curata da Harald Szeemann, armata di macchina fotografica Mariella Bettineschi scatta migliaia di fotografie che rielabora in un progetto intitolato Domino: un lavoro interamente giocato proprio sul tema di questa reciprocità dell’atto del guardare. Aveva infatti catturato gli sguardi del pubblico di visitatori, cogliendo le differenti reazioni dinanzi alle opere esposte: “[…] chi è di fronte alle immagini dell’artista, che a sua volta guarda attraverso l’obbiettivo quanti stanno osservando. Gli scatti vengono, poi, rielaborati e accostati secondo due criteri: quello basato sul ritmo, sui valori formali e compositivi, sugli effetti di luce e ombra e quello suggerito dai nessi di significato leggibili nelle immagini”[17].

A questa apertura e reciprocità del guardare, è invece interessante notare che l’artista, vent’anni prima dell’avvio de L’era successiva, in occasione della sua partecipazione alla XLIII Biennale Internazionale d’Arte di Venezia del 1988, aveva esposto opere “chiuse” inaccessibili all’altrui penetrazione, opere per sguardi diretti, frontali, opere agguerrite, e sibilline: “[…] poche incidenze grafiche creano la modulazione memoriale di un segno, con un’intensità notturna e vibratile, sulla superficie intensamente animata dal colore del fondo”, scrive Giovanni Carandente nel testo in catalogo, descrivendo i lavori di Bettineschi: L’accesso sigillato (1987), Colonna d’ombra (1987), Magico (1987), Celata (1988), Arcadia (1988)[18]. Ottanta anni prima dell’avvio de L’era successiva, René Magritte terminava Les regards perdus, iniziato nel 1927. Un uomo è ritratto di profilo, vestito con una tunica bianca. Lo sguardo dell’uomo si raddoppia in quello di una donna, il cui profilo è inscritto e come ritagliato in quello maschile, chiudendosi nel perimetro della nuca e del collo maschile. Donna e uomo guardano nella stessa direzione.

Il volto duplicato in un androgino protendersi si staglia su un fondo neutro, che pare metallo alchemico, orizzontalmente solcato da una lama nera che divide in due campi l’intera immagine. Un accenno di natura sorge alle spalle del volto, una roccia che si estende fino alla parte alta del quadro. Null’altro. Ciò che deve emergere, è quella potenzialità nascosta – perduta? – quel doppio guardare ad un altrove che deve ancora delinearsi.

Il taglio, il collage, lo sdoppiamento: in una delle scene capitali della storia del cinema surrealista, Luis Buñuel seziona un occhio femminile. È il delirante fotogramma di Un chien andalou, da questi prodotto e interpretato con Salvador Dalí, e diretto dal solo Buñuel. Attraverso il sacrificio di uno sguardo, le immagini deraglianti franano sullo schermo, in un viaggio delirante di diciassette minuti.

L’artista è medium di un altro vedere, a costo di mettere su quel tavolo anatomico tanto caro alle avanguardie di primo Novecento, immagini d’ogni sorta e pudori di qualsivoglia natura. Tutta l’estetica surrealista pullula di sguardi. Femminili. Dall’occhio seducente e persecutore nell’Oggetto indistruttibile di Man Ray, 1923 – dove lo sdoppiamento dello sguardo è dato dall’essere in ogni tempo vigile, seguendo il ritmo del metronomo – a un frottage della serie Storia naturale del 1925 di Max Ernst[19]: vorremmo chiedere cosa ne pensa Mariella Bettineschi di questo grande occhio femminile, appena aggrappato a una ellisse di epidermide rosa, non a caso intitolato La ruota della luce.

Ci direbbe di chiederlo alle donne de L’era successiva: abili incantatrici, tessono le fila del tempo e delle immagini, Parche ammalianti di un futuro antico.

  1. Why have there been no great women artists?[20]

Remedios Varo aderisce al surrealismo tra Madrid e Barcellona, e inizia “giocando” al cadavre exquis. Nel 1943 lavora sul proprio ritratto: al suo volto fotografato di profilo affianca il mezzo volto di Benjamin Péret. Varo ha le braccia sui fianchi, il cappello dall’ampia tesa nera, e raddoppia la sua visionaria scelta di essere artista surrealista con lo sguardo di un compagno di strada, giunto in Spagna per combattere a fianco dei repubblicani. Di nuovo, amputazione e raddoppiamento del proprio con l’altrui sguardo: visione ed estasi[21].

“Mano nella mano, ciascuno perduto nello sguardo dell’altro. Ma le teste dei due sono state sostituite da specchi cosicché ciò che ciascuno vede non è l’altro ma il riflesso di se stesso.”[22].

Come la natura campeggiava alle spalle dell’autoritratto ritratto di Varo del 1943, così Gli Amanti dipinti dall’artista vent’anni dopo siedono in un bosco con le gambe nell’acqua creata dal vapore della loro attrazione, che sale si condensa e ricade in forma di pioggia. Generazione e potenza dello sguardo che si raddoppia, si sdoppia, si ripete ab libitum.

Il mondo surrealista femminile ci trasporta nel visionario universo creativo di Mariella Bettineschi. In tutta la sua opera, prendendo a prestito le parole che descrivono il lavoro di un’altra surrealista, Leonora Carrington, “la natura è animata da forze e germinazioni potenti e noi ci siamo messi a confronto con la voce autoritaria di una donna compresa nella ricerca di un metalinguaggio capace di sovrastare le limitazioni dello spazio e del tempo lineari, e di comunicare l’interdipendenza di tutti gli aspetti del mondo fenomenico e fisico”[23].

Nei decenni, l’icona femminile in Bettineschi è metamorfica presenza, vergine con liocorno, viaggiatrice iniziatica dall’adolescenza alla maturità, madre e angelo, dea e luce generante una natura alchemica, ora fatta di animali e vegetazioni rigogliose, come nel recente lavoro Mon seul désir, liberamente ispirato agli arazzi del Museo di Cluny, o nella innumerevole cascata di disegni dove una misteriosa Dulcinea spesso compare affiancata da meravigliose minuzie minerali, o ancora, tornando indietro nel tempo, nei citati Piumari, sineddochi di una corporeità femminile e forse autobiografica, dove un lieve soffio di piume bianche si dispone come paesaggio di membra, dietro la membrana di organza rosa, metafora di epidermide trapuntata di bagliori.

Mentre nel ciclo de La vestizione dell’angelo, realizzato negli anni Novanta in una effervescente sperimentazione di materiali che include l’ottone, il vetro sagomato, la carta da lucido, l’acetato, la maglia d’acciaio, il neoprene, Bettineschi sostituisce alla donna la sineddoche dell’abito, abitante un corpo da immaginare.

Per giungere a L’era successiva, quando una teoria di volti riemergono, fieri, dall’ossimoro cui i maschilisti secoli li hanno relegati: un anonimato famoso.

Una processione femminile quella di Bettineschi, avviatasi negli anni Settanta, quando prende le mosse la sua indagine artistica: in un momento in cui la scelta era tra mettere in campo il proprio corpo come rivendicazione di diritto all’espressione e alla creazione artistica, oppure la riduzione concettuale del gesto nel segno e nell’enunciazione, in una reiterazione progettuale. Percorsi che in un certo senso Mariella Bettineschi già aveva interiorizzato senza bisogno di attraversare, proiettata verso un fare arte che si sarebbe affermato molto più avanti, superate anche le istanze trans-avanguardiste: quando, “all’approccio di tipo eroico, politicamente radicale e ansioso di scontrarsi frontalmente […sarebbe] subentrata un’attitudine più ‘decostruttiva’ […] concentrata sulla creazione di uno sguardo e di una posizione propri, non contrapposti ma semplicemente differenti da quelli maschili […] una visione individuale, soggettiva, affondata nella pratica concreta di un linguaggio, anziché del linguaggio”[24].

Nella sua ibridazione e mescolanza di materiali, media, alfabeti, nella costante osmosi e contaminazione di periodi di ricerca, nella centralità data alla processualità piuttosto che al metodo, nella passione per la manualità anche laddove il medium è digitale, nella delicata durezza con la quale intrappola e delimita, seziona e duplica una immagine, per permetterle di diventare talea generante nuove iconografie, Mariella Bettineschi è un’artista che già all’abbrivio della sua carriera è pienamente proiettata tra anni Novanta e nuovo millennio: e anzi forse proprio per questa sua scelta innata e spontanea, intuitiva e “selvatica” ovvero solitaria, ha sofferto della mancanza di una collocazione storiografica, che ancora le deve essere riconosciuta.

Aspetti cruciali dell’opera intera di Bettineschi, quali l’utilizzo di una pluralità di media e materiali, il rifiuto di una storia universalizzante a favore di una memoria personale che filtra i fatti epocali attraverso una visione intima, la scelta di non esporre e dichiarare la corporeità femminile – pratica invece saliente nel decennio Settanta e anche in quello successivo – a favore di un piano più nascosto, indiziale, narrativo dell’identità e della fisicità della donna nel contesto contemporaneo, una certa predisposizione alla giocosità intesa come stimolo immaginativo e affabulatorio dell’opera, sono componenti riconosciute nella ricerca artistica femminile a partire dagli anni Novanta, e che con notevole anticipo sono tutte presenti, fin dagli avvii, nell’indagine di Bettineschi[25].

“L’universalità modernista riposa su un’estetica dell’universalità delle forme di rappresentazione, forme da cui le donne sono state costantemente escluse. Il postmoderno, lungi dal mettere in discussione quest’idea di universalità, spesso non fa altro che reinvestirla per enunciare perentoriamente un messaggio di relatività. Una critica femminista dell’ordine patriarcale deve dunque essere anche una critica all’ordine di rappresentazione”[26].

 

  1. Finis Terrae.

I bagliori che riverberano nelle Erme del 1983 ritornano nelle brume che s’addensano tra i boschi e sugli stagni nei paesaggi de L’era successiva: allora, le piccole bacheche di legno, dipinte di nero e protette da una finestra di vetro contenevano elementi naturali nascosti, pigmenti baluginanti, accenni di vette e fronde, magiche atmosfere che segnavano un di qua e un di là – di qua la realtà, di là l’immaginazione della realtà, la potenzialità dell’arte come atto rigenerante e rigoglioso.

Lasciare tracce nel paesaggio, per indicare un percorso esperienziale e occulto, è all’origine della ricerca di Bettineschi, che a cavallo tra anni Settanta e Ottanta interviene fisicamente nella natura a lei circostante, con elementi e oggetti che diventano “[…] lettere di un nuovo alfabeto […] Sono Tracce sul letto del fiume o Architettura ai margini del bosco, dove elementi naturali variano la loro posizione consueta risignificando lo spazio”[27].

Alle operazioni dirette nella natura, e al suo nascondimento nei teatrini di legno nero e vetro, dal 2008 Mariella Bettineschi sostituisce la pittura digitale e la stampa su plexiglass, per creare una vegetazione rigogliosa e silente, dove se l’uomo è passato, ha dolcemente lanciato un sasso nello stagno; altrove, ellissi cosmiche ci suggeriscono che presenze straniere, sguardi d’altri mondi possono avere carezzato l’idea di fermarsi nella frescura, irradiando con una luce acida e lattiginosa la radura circostante.

Mistero, attrazione e silenzio, indecifrabile percorso, presenza occulta, alchimia dell’immagine nel suo evaporare in memoria diafana: le nature de L’era successiva sono sorelle fitomorfe dei Tesori[28] e delle mappe che dopo le Erme, dal 1985, Mariella Bettineschi increspa e arriccia, perfora e stende, creando paesaggi rocciosi attraversati da baluginii e solcati dalle rughe della terra, da antiche rotte di carovane, da crepacci fantastici dove affondare lo sguardo: formati dalla traslucida carta da lucido che viene ricoperta di catramina, acqua ragia, pigmento, e infuocata, contengono la stessa duplice densità-diafanità delle opere de L’era successiva.

A volte pervasi di dorature, altre scritti dalla mano dell’artista, questi paesaggi ricordano le antiche mappe per esploratori, dove in alcuni punti era necessario indicare dei vuoti (blank) di conoscenza: hic sunt leones.

Mariella Bettineschi ci avverte che ci troviamo ai Finis Africae o ai Finis Europae.

Anche in queste opere degli anni Ottanta sono presenti forme ellittiche, segni inequivocabili di una geometria della terra, di un tracciato antropico che cerca di abbracciare l’inesprimibile e onnipotente natura.

Dalla fine di questo decennio, una progressiva riduzione in forme elementari, una scarnificazione dell’elemento organico – che vive sempre, sottotraccia, come idea originante, rimando possibile, ultima salvezza – caratterizza opere quali Quando la notte tende le sue trappole, quasi una dichiarazione di (anti)metodo dell’artista, 1988, e Orizzonte del 1989. Nella foresta di simboli e forme del lavoro di Bettineschi, alcune geometre si solidificano e diventano puri elementi sculturali, intervento deciso e perentorio nel paesaggio non rappresentato, ma reale. Alle sculture evocative di un gioco infantile, quali la Slitta e i Dondoli, del 1990, e alla grande scultura ambientale, trait-d’union tra micro e macrocosmo, nel Carro celeste del 1994, seguono inequivocabili, a volte ostacolanti, grandi segni da attraversare nello spazio, come nel caso del Paesaggio in nero[29] al Serrone di Villa Reale a Monza, realizzato 1992 in occasione di una personale dell’artista: “[…] si stagliano enormi una X e una V nere e, su una sorta di planetario modellato dagli acidi, campeggiano dodici croci”[30]. Inquietanti come gli shuttle sospesi tra decollo e apocalisse, potenza e distruzione, nelle vedute de L’era successiva.

E al contempo, proliferano nel suo lavoro una miriade di eclissi, di sfere, di forme circolari, come Pillole leggere in PVC da disporre a pavimento, nel 1995, o medium per misurare, con la luce riflessa attraverso membrane traslucide e policrome, la temperatura dell’atmosfera, ne La teoria delle sfere[31] del 2003, o ancora punteggiano il Paesaggio plurale, un’altra installazione site-specific in galleria a Milano, nel 1992. Mentre ne Il Mulino di Amleto, di due anni successivo, le sfere diventano dischi neri su un campo geometrico irregolare rosso, a parete. Nata nell’ambito di quello che poi si sarebbe rivelato un vero e proprio progetto-pilota, ripreso e rimodellato in molte altre manifestazioni che negli anni hanno visto andare a braccetto l’impresa e la cultura, attraverso il coinvolgimento diretto di artisti contemporanei chiamati a intervenire sui luoghi di lavoro, Arte e Industria. L’esperienza Textile Produkte per l’arte contemporanea[32] nasce nel 1993 da un’idea di Bettineschi con Fausto Radici. Curato da Amnon Barzel, aveva chiamato a raccolta una selezione di artisti chiedendo loro di esprimersi nello spazio della fabbrica, ricevendo e rielaborando gli stimoli ricevuti dai suoi ritmi e dai suoi prodotti, dai suoi lavoratori e dirigenti. Allora, è interessante notare che Bettineschi dichiarava che in quella installazione convergessero “[…] un tempo orizzontale, quotidiano, il tempo del luogo ed un tempo obliquo, il tempo dell’immaginazione, della poesia: due tempi che si cercano, necessari l’uno all’altro ma che non riescono mai a coincidere perfettamente”[33]. Di questi tempi, e di questa loro (im)possibile reductio ad unum, ancora ci parlano le eclissi de L’era successiva.

 

  1. Avvistamenti celesti.

“Gli analisti, i pensatori, i giornalisti e chi dovrebbe prendere le decisioni suddivideranno la rete […] in tanti piccoli scomparti, in ognuno dei quali si troverà soltanto la scienza, l’economia, le rappresentazioni sociali, la cronaca, la pietà o il sesso. […] Guai a confondere il cielo con la terra, l’universale con il locale, l’umano e il non umano. […] Ma che una spola sottile colleghi insieme il cielo, l’industria, i testi, le anime e la legge morale è qualcosa che resta ignoto, indebito, inaudito”[34].

Nel nuovo millennio Mariella Bettineschi torna a misurare le mappe celesti, cercando nella riduzione iconica dell’opera una formula che possa racchiudere quell’eterno dialogo tra microcosmo dell’uomo e macrocosmo infinito; o, anche e ancora, tra idea originante, platonica – come rievoca anche il titolo La teoria delle sfere – e sua contaminazione e disseminazione nelle forme che ne derivano, come figlie della impronta prima. Primordiale, arcana. Si tratta, nuovamente, del problema di generazione, di trovare – o ritrovare, sarebbe meglio dire – nel mandala del processo creativo, il principio, l’origine di un gesto che rimette al mondo il mondo.

In questo Mariella Bettineschi è esemplare, prolifica, ogni volta stupefacente, nella variegata unitarietà dei risultati linguistici.

Il suo percorso, proteso al mistero dello spazio, di una volta celeste che si specchia su sculture oblique adagiate come meteoriti giocose in un prato verde, o che si impiglia nelle carte lavorate con materiali organici e inorganici, prende le mosse Verso la costellazione dei leopardi, 1986: “[…] brani di cielo folgorati da un’improvvisa luminescenza, luoghi di contemplazione, da cui si percepisce l’eterno”[35].

A questi attraversamenti celesti, dove lontane galassie squarciano il buio della conoscenza – è sempre un’alternanza di nero e luce, come nei blank e nelle tinte fosche su cui si stagliano le immagini de L’era successiva – pare rispondere, nel nuovo millennio, La costellazione del disegno interno. Si tratta di un lavoro composito, formato da una serie di disegni stampati su forme circolari di plexiglass da disporre nello spazio: ciascuno di essi, reca mappe astrali, segni ellittici e circolari ruotanti attorno a perni centrali, satelliti, formule chimiche di genesi tradotte in linee e addensamenti di colore nero, successioni numeriche, asteroidi ridotti ai minimi termini, curiose navicelle spaziali: forme che già s’appuntavano sui Piumari e solcavano i Tesori, poi tracciavano processioni più ordinate nelle opere di fine anni Ottanta, e infine eccole qui, raccolte come pure idee graficizzate a punteggiare lo spazio, con l’occhio teso tra Federico Zuccari[36] e Marcel Duchamp per quelle lastre trasparenti allevatrici di icone misteriche e alchemiche, memori del suo Grande Vetro: “[…] anche per una certa familiarità delle immagini incise sopra […] ma se Duchamp utilizzava vetro e immagini per negare l’arte, Mariella Bettineschi lo fa per affermarla: primo perché quest’ultima si inserisce nel solco di una tradizione, secondo perché i disegni sui vetri sono ‘disegni interni’ come li chiama l’artista e quindi con il preciso intento di dare a essi il senso di una struttura”[37]. Così annota Giacinto di Pietrantonio in occasione di Voyager, laborioso progetto espositivo itinerante che vede le Costellazioni del disegno interno volare oltreoceano, per approdare a New York, Detroit, Los Angeles, Philadelphia e Chicago, San Francisco..

  1. Diafano.

Intitolando il suo saggio Senz’ombra di dubbio, Di Pietrantonio focalizza un elemento cruciale della ricerca di Bettineschi, ovvero la sua capacità di lavorare con la luce e con l’ombra, attraversando tutta la gradazione che intercorre tra i due opposti. Riporto integralmente la riflessione, che apre il campo a una disamina sul tema del diafano nel lavoro dell’artista, a partire da L’era successiva, per scoprirlo elemento portante del suo intero percorso creativo.

“C’è una differenza ulteriore a cui vale la pena accennare ed è quella dell’ombra prodotta da un corpo traslucido o addirittura trasparente, perché in questi casi la luce non finisce dove incontra il corpo e inizia l’ombra, in quanto lo trapassa e i confini tra luce, corpo e ombra finiscono per diventare labili e compenetrarsi a vicenda, insomma sfumano continuamente uno nell’altro”[38].

Le biblioteche de L’era successiva, sono riproduzioni fotografiche a prospettiva centrale, manipolate da Bettineschi nel loro viraggio in bianco e nero, e nella successiva elaborazione pittorica digitale. L’artista le ha scelte, per sua esplicita ammissione, tra i soggetti de L’era successiva in quanto rappresentano ancor oggi, forse ancor più che nel 2008 in piena crisi identitaria occidentale, dei “granai” del sapere, citando Yourcenar, da tenere quali preziose provviste in epoche di carestia culturale[39]. In un viaggio ideale che attraversa lo scibile conservato e rilegato in tutta Europa, l’artista ci mostra la Biblioteca Casanatense di Roma, la Biblioteca Apostolica in Vaticano, la Trinity College Library a Dublino, la Biblioteca Marciana di Venezia, la Biblioteca del Monastero dei Benedettini di San Gallo, in Svizzera. Un silenzio pervade gli ambienti, un vuoto di parole che paiono sospese in quella nube centrale che si addensa e sfuma in ognuna delle vedute interne, lasciando appena intravvedere i bordi di questi depositi del sapere, con gli scaffali e i libri impilati, gli stucchi delle volte o la pavimentazione geometrica, le sedute e i tavoli dove consumare le ore, immersi nella lettura. Lo sguardo è costretto a un continuo percorso interno-esterno, dal vuoto che s’accampa fumante al centro, al perimetro dove gli oggetti riprodotti rimangono visibili. Ma anche in questa lateralità, gli occhi sono sollecitati dal fondo riflettente, che ripete e raddoppia i margini delle biblioteche, in un’eco apparentemente infinita di rimandi.

Qualcosa di simile avviene nei Fotobilder di Gerhard Richter, dipinti a partire dalla proiezione di una fotografia sulla tela, e ottenuti attraverso il blurring effect offerto dal ductus pittorico. Recentemente, è stato analizzato quanto questa scelta di sfocatura in Richter non risponda a una metafora del processo memoriale – il ricordo di qualcosa di dimenticato, nel venire agli occhi rimane sbiadito e non delineato – quanto per fare emergere un senso altro dell’archivio: “qualcosa deve essere mostrato e allo stesso tempo non mostrato, forse per dire qualcos’altro, una terza cosa”[40].

Se Richter, avvalendosi della tradizionale pittura ad olio e partendo da un archivio di immagini fotografiche, riesce a realizzare “una complessa operazione intermediale di mobilizzazione dell’archivio”, grazie alla quale “i documenti quotidiani che sono i supporti della nostra memoria divengono il fulcro di un’anamnesi visiva capace, in ultima analisi, di pensare la storia”[41], qualcosa di simile avviene nel lavoro de L’era successiva, e in peculiar modo nelle biblioteche di Mariella Bettineschi. La quale parte analogamente dalla fotografia, per intervenire direttamente su di essa con la pittura digitale, e accelerare quell’effetto di blurring attraverso un addensamento che nel nucleo dell’immagine riprodotta diventa blank, vuoto. In questo modo, nelle sue biblioteche, “l’occhio mette a fuoco separatamente prima uno e poi l’altro livello, per poi fermarsi a un piano intermedio tra i due, come in un esercizio ottico propedeutico a un più complesso esercizio mentale di sospensione del giudizio e della capacità di distinguere e nominare gli oggetti” [42].

Ho parlato di diafano a proposito della ricerca di Bettineschi e ritengo che questo sia il termine più adatto per descrivere non solo la sua modalità di lavorazione dell’immagine, ma anche la scelta di molti materiali, dal vetro al plexiglas alla carta da lucido. Il diafano presenta in effetti, per l’artista, una gamma che va dal fantasma della pura trasparenza al traslucido che lascia filtrare la luce, ma non permette di vedere i contorni né le tracce delle figure dietro lo schermo, fino al torbido e all’opacità più impenetrabile. Il diafano allora è quel medium attraverso il quale avviene il processo di affioramento alla visibilità di qualcosa: grazie alla nebbia che s’addensa nel cuore centrale delle riproduzioni delle biblioteche scelte da Bettineschi, possiamo immaginare – vedere ancora, davvero, per la prima volta, per una nuova volta? – ciò che di più importante esse contengono: la nostra cultura, il nostro aver elaborato in alfabeti, formule, immagini il mondo. Vedendone il bordo, ne scorgiamo la totalità.

C’è dell’altro.

Nell’etimologia della parola, diafano contiene la preposizione Δια (dia), designante ciò che separa o squarcia, e di conseguenza ciò che permette un’attraversata, un’apertura, uno sfondamento, di intravedere una interiorità, di portare alla luce qualcosa di nascosto. A questa preposizione si unisce il verbo φαίνω (fàino), che presenta una grande ricchezza semantica, nel suo essere parente di φως (fos), luce: significa infatti brillare, illuminare, ma anche fare apparire, rendere visibile, portare alla luce ciò che è velato; e quindi, fare conoscere, mostrare, annunciare, presentare, indicare; rendere manifesto un fenomeno fisico o un aspetto spirituale, per sua natura invisibile[43].

In questo senso, le biblioteche di Mariella Bettineschi sono le giovani sorelle di un continuum creativo che dalla trasparenza si addensa nel torbido: una teoria di immagini che l’artista, medium attraverso il medium del diafano e della sua gamma di possibilità, ci chiede di vedere per la prima volta, grazie ai bagliori e ai baluginii che le punteggiano, ai fuochi che divampano sulla superficie, alle acide rifrazioni di luci riprese in movimento: dagli Avvistamenti degli anni Ottanta, ai Sovraesposti, agli Incendiati, al corpus cospicuo de Alla velocità della luce degli anni Novanta, è tutto un lavorare sulla luce che si fa fioca o esplosiva, appena percettibile o accecante.

Instancabile, l’artista ci chiede di continuare a vedere, con i nostri occhi, liberi, ebbri, puri.

Alla ricerca di qualcosa che in noi è latente, liminare, sotto la crosta delle convenzioni e delle abitudini: la capacità di sognare, stupirsi, immaginare.

 

  1. Orfeo.

“Pensare vuol dire inventare. Tutto il resto – citazioni, note a piè di pagina, indice, riferimenti, copia-incolla, bibliografia delle fonti, commenti… – può passare per preparazione, ma presto cade nella ripetizione, nel plagio e nel servilismo. […] Pensare trova. Un pensatore è un troviero, un trovatore. […] Scoprire non capita spesso”[44].

Un piccolo libro, poggiato su un cavalletto, si accampa in una distesa marina, appena partito per un viaggio nel profondo torbido dell’acqua: si chiama Orfeo.

È bianco. Blank.

A noi spetta scriverlo.

 

[1] Francesca Pasini, a cura di, Mariella Bettineschi, Corraini, Mantova, 2013.

[2] Francesca Pasini, Un arcipelago mobile, Ivi, pp. 6-12.

[3] Mariella Bettineschi, L’era successiva, brochure di presentazione del progetto, s.l., s.d., s.p.

[4] Il paragrafo originario nel quale si trova la citazione è in:

  • Gottfried Wilhelm Leibniz, Monadologie, édité par Alexis Bertrand, Eugéne Belin Editions, Paris 1886, p. 55, ai paragrafi 22 e 23:

“22. Et comme tout présent état d’une substance simple est naturellement une suite de son état précédent, telle- ment que le présent y est gros de l’avenir“,

In nota al paragrafo 22, Leibniz rinviava il lettore al paragrafo 360 della Théodicée, scritta nel 1710 su richiesta della regina di Prussia e dedicata al problema del male:

“C’est une des règles de mon système de l’harmonie générale que le présent est gros de l’avenir, et que celui qui voit tout voit dans ce qui est ce qui sera. Qui plus est, j’ai établi d’une manière démonstrative que Dieu voit dans chaque partie de l’Univers tout entier, à cause de la parfaite connexion des choses. Il est infiniment plus pénétrant que Pythagore, qui jugea de la taille d’Hercule par la mesure du vestige de son pied”.

(Théod., 360.)

Successivamente il concetto era chiarito nella nota al paragrafo 23, citando i Nouveaux essais sur l’entendement humain, scritti nel 1703 e rivolti ai problemi dell’anima umana e della conoscenza:

“En vertu du principe que le présent est gros de l’avenir, chaque état de l’âme a sa raison et sa cause dans les états qui l’ont précédé: nulle action externe n’intervient dans la production des états de l’âme; les perceptions n’ont donc pas d’autre cause naturelle que les perceptions. La monade les produit de son propre fonds. ‘On peut mémo dire qu’en conséquence de ces petites perceptions, le présent est plein de l’avenir et chargé du passé, que tout est conspirant […]’ ”.

Dei Nouveaux essais sur l’entendement humain è stata edita, nel 1968, una traduzione italiana cui facciamo riferimento:

  • Gottfried Wilhelm Leibniz, Nuovi saggi sull’intendimento umano, [ed. orig. Nouveaux essais sur l’entendement humain, in Oeuvres philosophiques, Amsterdam et Leipzig, Rud. Eric Raspe 1765] traduzione, introduzione e note di Michele Federico Sciacca, La Scuola Editrice, Brescia 1968.

[5] Cfr. Ernst Cassirer, Simbolo, Mito e Cultura [ed. orig. Symbol, Myth and Culture. Essays and lectures of Ernst Cassirer 1935-1945, edited by Donald Philip Verene, New Haven and London, Yale University Press 1979] a cura di Donald Philip Verene, traduzione di Giovanni Ferrara, Laterza, Roma-Bari 1985.

[6] Cfr. Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo. Un’introduzione alla filosofia della cultura umana, [ed. orig. An Essay on Man. An Introduction of Philosophy of Human Culture, Yale University Press, New Haven 1944] Armando Editore, Roma 1968, traduzione di Carlo D’Altavilla.

[7] Ivi, p. 116.

[8] Ibidem.

[9] Mariella Bettineschi, L’era successiva cit., s.p.

[10] Michel Serres, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente [ ed. orig. Le Gaucher boiteux. Puissance de la pensée, Éditions Le Pommier, Paris 2015] Bollati Boringhieri, Torino, 2016, traduzione italiana di Chiara Tartarini.

[11] Il mio avvicinamento a Bruno Latour si deve ad Anselm Franke, Shifting backgrounds, in “Mousse”, n. 54, June 2016. Ovviamente, cfr. anche Bruno Latour, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia comparata [ed. orig. Nous n’avons jamais été modernes, La Découverte, Paris, 1991] Elèuthera, Milano, 1995, traduzione italiana di Guido Lagomarsino.

[12] Mariella Bettineschi, in conversazione con chi scrive, luglio 2017.

[13] Francesca Pasini, Un arcipelago mobile cit., p. 7.

[14] Mariella Bettineschi, in Francesca Pasini, L’era successiva: vuoti d’aria e sguardi doppi, in Eadem, a cura di, Mariella Bettineschi. L’era successiva, catalogo della mostra, Nuova Galleria Morone, Milano, 24 settembre-7 novembre 2015, Nuova Galleria Morone, Milano 2015, p. 8.

[15] Patrizia Serra, a cura di, Piumari, catalogo della mostra, Galleria Ipermedia, Ferrara, 1982.

[16] Filiberto Menna, a cura di, Indagine sull’isola, catalogo della mostra, Galleria Corsini, Intra (Verbania), 1984.

[17] Cecilia De Carli, Nel frammento il tutto, in Mariella Bettineschi. Voyager, testo di Giacinto di Pietrantonio, catalogo della mostra itinerante, GAMeC-Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea, Bergamo; Casa Italiana Zerilli-Marimò e Dorfman Project, New York; Museum of New Art, Detroit; Santa Monica Museum of Art e Istituto Italiano di Cultura, Los Angeles; The University of Arts, Philadelphia; Jean Albano Gallery, Chicago; Biagiotti Progetto Arte, Firenze, Bergamo, 2006, p. 94.

[18] Giovanni Carandente, Aperto 88, in XLIII. Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia. Il luogo degli artisti, catalogo della mostra cura di Marie-George Gervasoni, Venezia, Edizioni La Biennale, 1988, p. 257. La lista delle opere di Bettineschi è pubblicata a p. 281.

[19] Questa successione di immagini (Magritte, Man Ray, Max Ernst) è tratta da Martina Corgnati, Fotografia, scultura, in Eadem, Artiste. Dall’Impressionismo al nuovo millennio, Bruno Mondadori, 2004, pp. 15 e 16.

[20] Il titolo è tratto dal saggio di testo capitale che ha contribuito a delineare una storia dell’arte femminile, pubblicato in Linda Nochlin, Women, Art, Power, and other essays, Westview Presso, Boulder (CO) 1988.

[21] Per un approfondimento su Remedios Varo, rimando ancora a Martina Corgnati, Surrealiste, in Eadem, Artiste cit., pp. 130-151, dove accanto a Varo troviamo Leonor Fini, Frida Kahlo, Meret Oppenheim.

[22] Janet A. Kaplan, Remedios Varo, Unespected Journey, Abbeville Press, New York-London, 1985, p. 151, in Martina Corgnati, Surrealiste cit., p. 147.

[23] Whitney Chadwick, Leonora Carrington. Visual Narrative in Contemporary Mexican Art, in M. Agosin, a cura di, A Woman’s Gaze, White Pine Press, Fredona (NY) 1998, p. 100, cit. in in Martina Corgnati, Surrealiste cit., p. 146.

[24] Martina Corgnati, Introduzione, in Eadem, Artiste cit., p. XI.

[25] Così analizza Emanuela de Cecco in Trame: per una mappa transitoria dell’arte italiana femminile degli anni Novanta e dintorni, in Emanuela De Cecco e Gianni Romano, a cura di, Contemporanee. Percorsi, lavori e poetiche delle artiste dagli anni Ottanta a oggi, Costa&Nolan, Genova 2000. In particolar modo, De Cecco descrive con questi termini tali aspetti salienti e ricorrenti nelle pratiche artistiche femminili del decennio: Partire da sé; Indisciplina; Storia versus memoria; Corpi nascosti; Narrazioni; A che gioco giochiamo?, pp. 8-28. Rimando anche alla estesa Bibliografia generale e teorica sull’arte delle donne negli ultimi vent’anni, a cura di Emanuela di Cecco, pp. 371-383.

[26] Yves Michaud, Introduction, in Féminisme et historie de l’art, textes de Marcia Tucker, Lisa Tickner, Griselda Pollock, et al., École nationale supérieure des Beaux Arts, Paris 1990, p. 13, in Martina Corgnati, Introduzione cit., p. XVIII.

[27] Cecilia De Carli, Nel frammento il tutto cit., p. 88.

[28] Francesco Bartoli e Patrizia Serra, a cura di, Tesori, catalogo della mostra, Spazio Temporaneo, Milano, Edizioni Spazio Temporaneo, 1986.

[29] Paolo Biscottini et al., a cura di, Mariella Bettineschi. Paesaggio in nero, catalogo della mostra, Villa Reale, Monza, Federico Motta Editore, 1992.

[30] Cecilia De Carli, Nel frammento il tutto cit., p. 90.

[31] Laura Jane Culpan, a cura di, La teoria delle sfere, catalogo della mostra, Platform Gallery, London, Edizioni Contemporanei, 2004.

[32] Amnon Barzel, a cura di, Arte e Industria. L’esperienza Textile Produkte per l’arte contemporanea, Marcos y Marcos Editore, Milano, 1996.

[33] Mariella Bettineschi, in Amnon Barzel, a cura di, Arte e Industria cit., p. 71.

[34] Bruno Latour, I. CRISI, in Idem, Non siamo mai stati moderni cit., pp. 13-16.

[35] Cecilia De Carli, Nel frammento il tutto cit., p. 89.

[36] Così annota Cecilia De Carli, ricordando che nel 1600 Zuccari prese da Vasari il concetto di “disegno interno” per indicare l’ideazione, distinguendolo da quello di “disegno esterno”, o materiale. Cfr. Cecilia De Carli, Nel frammento il tutto cit., p. 94.

[37] Giacinto Di Pietrantonio, Senz’ombra di dubbio, in Voyager cit., p. 11.

[38] Giacinto di Pietrantonio, Senz’ombra di dubbio cit., pp. 9-10.

[39] Mariella Bettineschi, L’era successiva cit., s.p.

[40] Hal Foster, Semblance according to Gerhard Richter, in “Raritan”, Winter 2003, p. 172, citato in Angela Mengoni, Ri-velare l’archivio: su Onkel Rudi di Gerhard Richter, in Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti, ZeL Edizioni, Palermo 2012, pp. 170-171.

[41] Angela Mengoni, Ri-velare l’archivio: su Onkel Rudi di Gerhard Richter cit., pp. 173-174.

[42] Emanuele Garbin, Il bordo del mondo. La forma dello sguardo nella pittura di Gerhard Richter, Venezia, Marsilio, 2011, p. 20.

[43] Cfr. Patrizia Magli, Έστι δή τι διαφανές. Esiste dunque del diafano, in Diafano. Vedere attraverso, a cura di Chiara Casarin ed Eva Ogliotti cit., pp. 17-24.

[44] Michel Serres, Premessa, in Idem, Il mancino zoppo. Dal metodo non nasce niente cit., p. 13.

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